sabato 22 dicembre 2018

Caso Battisti: tutto uguale a 15 anni fa, ieri in Francia oggi in Brasile



Ricordo bene quando scoppiò per la prima volta il caso del latitante dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo), Cesare Battisti, condannato in relazione a 4 omicidi durante gli "anni di piombo". Era il 2004 e l'allora neo presidente della repubblica francese, Nicolas Sarkozy, decise di metter fine alla "dottrina Mitterrand" che permetteva di lasciare tranquilli in Francia i terroristi italiani, rifiutando le domande di estradizione.

L'agenzia ADNKRONOS il 3 Marzo 2004 riportò il seguente comunicato:
L’Associazione italiana vittime del terrorismo accoglie ”con una certa perplessità” la notizia (della liberazione di Cesare Battisti, l’ex leader dei Proletari armati per il comunismo arrestato il 10 febbraio scorso a Parigi, n.d.r.). ”La Francia -dice all’ADNKRONOS Maurizio Puddu, presidente dell’associazione- è un Paese della Ue e dovrebbe cercare di ottemperare alle legittime richieste di giustizia dell’Italia, altro Paese membro dell’Unione. Zone franche del terrorismo non sarebbero un buon biglietto da visita per l’Unione in materia di cooperazione giudiziaria”. ”A questo punto -continua Puddu- e’ importante che Battisti sia in qualche modo controllato in attesa dell’udienza che deciderà l’estradizione. Un’eventuale fuga sarebbe una beffa per le famiglie delle vittime, che non vogliono ergersi a giudici ma che non devono essere costrette ogni volta a rivivere lutti e tragedie”. (1)

Non ci vuole molto a comprendere che quanto occorso pochi giorni fa in Brasile è la fotocopia di quanto temeva  Maurizio Puddu 15 anni fa, nel 2004; con l'unica variante che invece di una liberazione in attesa dell'estradizione, viene data la notizia dell'estradizione prima che il latitante sia arrestato. Il risultato è evidentemente il medesimo: permettere a quest'ultimo di prendere il largo, scappando in un altro paese.

L'amara differenza, tra ieri e oggi, per il sottoscritto, risiede nel fatto che a svelare il possibile inganno, "un’eventuale fuga", non sia stata l'Associazione vittime vittime del terrorismo (Aiviter), ma l'avvocato stesso del latitante, Igor Sant’Anna Tamasauskas, che spavaldamente dichiara a "la Repubblica":

«E' stato l’annuncio del mandato d’arresto a permettere a Battisti di fuggire, visto che la notizia è stata data in tv quando l’ordine non era stato ancora eseguito, un po’ come era successo a Torino per il blitz contro la “mafia nigeriana” annunciato da Salvini su Twitter quando ancora non era stato concluso (...)».
«Non era mai successo in questo Paese che un ordine di cattura firmato da un giudice del Tribunale Supremo venisse annunciato in diretta dai notiziari radio e tv, finisse on line e il giorno dopo fosse su tutte le prime pagine dei giornali. Normalmente accade che sia io che venga svegliato all’alba da un cliente che mi dice “avvocato, mi stanno arrestando”. E non che mentre vado a letto venga chiamato da decine di giornalisti che mi dicono che stanno per arrestare un mio cliente. Credo che quella fuga di notizie, che per quanto so ha fatto imbestialire la Polizia Federale, sia quello che, in portoghese, definiamo un Ato falho, un’azione che ha come suo scopo l’opposto di ciò che si prefigge. Detta in altro modo, penso che quella fuga di notizie sia servita a chiudere la partita senza danni per nessuno. Il Brasile ha messo fine a una partita politica delicata con l’Italia, capovolgendo la decisione di Lula, e Battisti è stato messo nelle condizioni di non doverne pagare il prezzo lasciandogli la possibilità di fuggire, come ha fatto (...)». (2)

Il paragone con Matteo Salvini è poco pertinente (manca la volontarietà), ma mi permette di ricordare che la risposta allo "scherzo" del Ministro degli Interni alla Procura di Torino è stato un comunicato stampa firmato del Procuratore capo Armando Spataro. Lo stesso magistrato che 2009 inviò all'Associazione Italiana Vittime del Terrorismo i fascicoli delle tre sentenze passate in giudicato dalla Corte d’Assise di Milano, relative a Cesare Battisti e i PAC. Mettemmo allora on line sul sito web dell'associazione tali sentenze (3) perché fosse chiaro a  tutto il mondo che Battisti, pur condannato in contumacia, subì un processò nel rispettò dei crismi di legalità e non da "tribunali speciali", come un carta vulgata voleva far intendere all'opinione pubblica mondiale.

I familiari delle vittime - Andrea Santoro, Pierluigi Torregiani ( e Alberto Torregiani rimasto ferito), Lino Sabbadin, Andrea Campagna - sono state "beffate" ancora una volta e costrette "a rivivere lutti e tragedie". Per parafrasare quanto il presidente Aiviter, Puddu, scrisse a Barbara Spinelli nel 2004: la "ragion di Stato" ha prevalso ancora una volta sulla "forza del diritto naturale" e il "rispetto della vita umana". (4)




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Fonti:
1. http://www.vittimeterrorismo.it/senza-categoria/caso-battisti/
2. https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2018/12/21/news/avvocato_cesare_battisti_igor_sant_anna_tamasauskas-214820613/
3. http://www.vittimeterrorismo.it/iniziative/30-gennaio-2009-online-le-sentenze-sui-reati-di-cesare-battisti-ei-pac/
4. http://www.vittimeterrorismo.it/caso-battisti/cari-amici-francesi-su-battisti-sbagliate/

domenica 16 dicembre 2018

Antonio Megalizzi che non è Sisto Malaspina: o della differenza di trattamento tra vittime

VITTIME E MEDIA

 

 Non è piacevole, in ogni attentato terroristico che coinvolga italiani, avere conferma puntuale delle mie osservazioni sulla percezione sociale delle vittime del terrorismo ( su Rassegna Italiana di Criminologia RIC, N.4 Dec 2017). 

Nell'attentato di Melbourne del 9 novembre scorso la notizia che sia rimasto colpito l'italiano Sisto Malaspina è durata poche ore ed è stata addirittura omessa in alcuni telegiornali nazionali; nel caso di Antonio Megalizzi abbiamo invece un'ampia copertura mediatica. 

Qui il brano che spiega il motivo della differenza di trattamento che alle vittime in generale non fa mai bene.



" (...) Riprendendo invece il tema della percezione degli attentati terroristici e le relative vittime da parte dell'opinione pubblica, ci sono altri aspetti, e altri ancora sono certo che mi saranno sfuggiti, tra i quali segnalo i limiti spaziali e temporali in cui si manifesta la solidarietà alle vittime: a) si svolge nella prima immediatezza dell’attentato, per scemare più o meno rapidamente ; b) è circoscritta geograficamente in un perimetro più o meno grande.

Il primo di questi fattori è la copertura mediatica temporale; l’attenzione dell’opinione pubblica dura fino quando giornali e televisioni ne parlano, ma non solo, l’eco permane anche in considerazione dalla personalità della vittima. Quando essa è un giornalista (pensiamo al rapimento dei reporter Giuliana Sgrena e Domenico Quirico, o alla redazione di Charlie Hebdo), una parte del mondo dell’informazione assurge, almeno temporaneamente, al ruolo di associazione delle vittime, attivandosi per le allargare la solidarietà nello spazio e nel tempo. Manifestazioni pubbliche e corali in molti paesi europei per un attentato sul suolo continentale ci sono state solo dopo Charlie Hebdo, nel gennaio 2015, anche se quell’attentato non è stato sicuramente il più grave inferto alla Francia o al nostro continente. Analogamente la reazione dei media verso i rapiti da organizzazioni terroristiche è asimmetrica rispetto alla richiesta di silenzio stampa che il governo richiede in tali circostanze: se il rapito è un giornalista la richiesta è attenuata o addirittura elusa, se non è giornalista, o in qualche modo esponente di un gruppo in grado di esercitare pressione sui media, la richiesta viene accondiscesa.

Un’altra osservazione empirica ci informa dello spazio; quanto più l’attentato è lontano dalla nostra area di prossimità, quella percepita dall’opinione pubblica dai confini nazionali ed europei, tanto meno si esprime solidarietà verso le vittime. Attentati che hanno colpito giovani vite, simili a quelli di Manchester (2017) o dell’isola di Utoya (2011), se accadono fuori dai confini europei hanno una minima eco sui media e sull’opinione pubblica. Con l’eccezione del rapimento di 276 ragazze nigeriane da parte dei Boko Haram nel 2014 che ha sollevato una vasta campagna in loro sostegno “BringBackOur Girls” partecipata da testimoni del calibro di Michelle Obama, la norma è rappresentata dal fallimento di rendere virale la solidarietà in fatti quali l’attentato al parco di Lahore in Pakistan nel 2016 che ha colpito 30 bambini tra le 72 vittime, o quello al campus universitario di Garissa in Kenia nel 2015 che ha ucciso 150 persone, in maggioranza studenti. Le stesse vittime italiane dei recenti attentati sono riconosciute in modo non dissimile, a seconda che l’attentato sia avvenuto geograficamente vicino o lontano. Vanessa Solesin, la studentessa veneziana uccisa al Bataclan di Parigi nel 2015 ha provocato maggiori partecipazioni di quelle, l’anno successivo, verso i nove italiani massacrati in un ristorante di Dacca, in Bangladesh. Il dato potrebbe essere avvalorato dalle metriche sui trend italiani degli hashtag su Twitter #PrayForParis e #PrayForDhaka." (...)

domenica 28 ottobre 2018

Il ritardo italiano nella prevenzione della radicalizzazione: la resilienza

Tratto da Quaderni di Benvenuti in Italia, n. 12/2018 che contiene gli atti del Convegno di Studi "Islam e prevenzione dei radicalismi: nuove strategie e best practices" svoltosi a Roma presso la Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, il 30 maggio 2017.

venerdì 26 ottobre 2018

1956 Budapest


It is quite impressive to see two flags outside the Hungarian parliament with a big hole in the center: a symbolic exposition of a 62-year-old political trauma so far from recovery. #1956hungary #1956revolution

martedì 16 ottobre 2018

Prevenzione della radicalizzazione violenta: il paradosso del caso italiano

Versione italiana del paper per la conferenza SPECTO2018 (https://specto2018.uvt.ro/).
Abstract:
L'Italia non ha subito attacchi terroristici come quelli che si sono verificati in molte altre realtà europee, ma è anche uno dei pochi paesi ancora privi di una strategia nazionale per prevenire e contrastare la radicalizzazione violenta (P / CVE): quelle politiche e programmi strutturati con il supporto delle autorità locali e della società civile che va oltre una prospettiva strettamente di sicurezza nell'affrontare le sfide del terrorismo e dell'estremismo. Questo è un paradosso? L'articolo inizialmente e brevemente descrive le caratteristiche della politica antiterrorismo e il contesto italiano dei fenomeni di radicalizzazione per argomentare come l'Italia si trova in una situazione anomala ma anche privilegiata nello scenario europeo grazie alle sue passate esperienze di terrorismo nel XX secolo. Di fronte ai limitati rischi sorti finora, gli Autori propongono una riflessione sulle prospettive a medio e lungo termine che porterebbero il Paese alla situazione ottimale di attivare politiche e programmi di prevenzione della radicalizzazione senza lo stato di emergenza con cui sono stati condotti in altri stati europei. Gli autori, analizzando le attività del progetto europeo FAIR e le attività di pilota svolte fino ad ora sulla consapevolezza, formazione e prevenzione nel sistema carcerario italiano, individuano le principali questioni critiche. Infine suggeriscono alcune raccomandazioni partendo dall'approccio "multi-agenzia" che crea un ponte di fruttuosa collaborazione tra livello nazionale e locale, forze dell'ordine e società civile.

venerdì 28 settembre 2018

Prevenire pregiudizi, razzismi e radicalizzazioni nelle scuole

Sono aperte, fino al 22 ottobre, le adesioni ai docenti torinesi del corso CE.SE.DI. per l'anno scolastico 2018/2019: giunto alla sua quarta edizione ha l'obiettivo di discutere di islam, migrazioni e terrorismo per prevenire pregiudizi, razzismi e radicalizzazioni tra gli studenti.
I moduli per aderire sono a questo LINK

lunedì 17 settembre 2018

ISIS Tomorrow

ISIS, TOMORROW The Lost Souls of Mosul from ZaLab on Vimeo.
Sarà in grado l’Iraq di accettare i figli dell’Isis come propri figli, di perdonare le loro madri, di riconciliare le anime del paese?
“ISIS, TOMORROW” cerca una risposta a questa domanda. Nell'ideologia dell’Isis i bambini sono l’arma più efficace per portare nel futuro l’idea di un grande Califfato universale: eredi di un unico obiettivo, creare un mondo diviso a metà, da un lato gli jihadisti e dall’altro lato gli infedeli da sterminare. I lunghi mesi della guerra, vengono ripercorsi attraverso le voci dei figli dei miliziani addestrati al combattimento e a diventare kamikaze, fino a seguire i loro destini nella complessità del dopoguerra, un dopoguerra di vedove bambine e ragazzi marginalizzati, in cui il sangue della battaglia lascia spazio alle vendette e alle ritorsioni quotidiane, alla violenza come sola risposta alla violenza.

Il documentario sarà presentato ufficialmente il 30 Agosto in sala grande alla 75esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, in Selezione Ufficiale, Fuori Concorso.


Scritto e diretto da Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi, che ne hanno curato anche la fotografia, con il montaggio di Emanuele Svezia e Sara Zavarise e le musiche originali di Andrea Ciccarelli. È una produzione FremantleMedia Italia con Rai Cinema, in coproduzione con Wildside, in collaborazione con Cala Filmproduktion e Bayerischer Rundfunk con Arte, prodotto da Lorenzo Gangarossa e Gabriele Immirzi

domenica 16 settembre 2018

A Critical Review of US Counter-Terrorism


Counterterrorism experts Martha Crenshaw and Gary LaFree provide a comprehensive critical look at how the US have dealt with the terror threat over the years. 

sabato 15 settembre 2018

martedì 11 settembre 2018

Le vittime italiane del terrorismo rimosse: dal Sud America all'11 Settembre (BOZZA)


 
Consolato italiano di New York, targa commemorativa "in memoria delle vittime italiane o di origine italiana" dell'attentato alla Torri Gemelle

L’11/9 ITALIANO

All'inizio del 2011 l'associazione AIVITER (Associazione Italiana Vittime del Terrorismo) di Torino ricevette un e-mail che la invita a individuare i nomi degli italiani coinvolti nell'attentato alle Twin Tower di New York. Il suo autore presupponeva che non esistessero o fossero inventati. Si trattava infatti di un simpatizzate di quella teoria del complotto che sosteneva che l'11/9 fosse stata tutta una complessa messa in scena, compresi i nomi e i volti delle quasi 3000 vittime. Iniziai così delle ricerche su Internet nei mesi successivi.

Tranne quanto accertato dei cronisti italiani presenti a New York nelle primissime settime successive all'attentato, che presentano alcuni nomi e profili di vittime italiane, i dati ufficiali si fermano ad un numero, 10, sul quale caddero le parole dell'allora Ministro degli esteri Ruggiero. Prima quelle del 18 settembre 2001: "Sull'identità dei dieci il console mantiene il silenzio”; poi quelle del 27 settembre: “Ci sono stati tanti italo-americani. Poi ci sono 37 oriundi, di cui 27 con doppia nazionalità e 10 con passaporto solo italiano. I nomi debbono rimanere top secret perché così vogliono gli americani.”
Dopo queste date degli italiani spariscono. Restano solo le suddette tracce di alcune corrispondenze fino ad ottobre 2001, sulle quali è però difficile valutare l'affidabilità in termini di nazionalità tra italoamericano, oriundi e dotati di doppia cittadinanza o solo di quella italiana.
Non scioglie il problema neppure un video, scovato sul web, della cerimonia nella quale il Ministro degli Esteri Massimo D’Alema inaugurava nel 2007, al Consolato italiano di New York, una targa commemorativa "in memoria delle vittime italiane o di origine italiana". In quell’occasione si vedono dei famigliari, a turno, leggere una lista di 172 vittime, senza distinzione tra italiani ed italoamericani. Al termine della lettura, prima dell’intervento del ministro D’Alema, si assiste ad una drammatica scena della madre di una vittima il cui figlio, Arturo Angelo Sereno, lamenta non essere stato citato e quindi essere presente nell'elenco. Curiosamente le reiterate scuse per l’omissione non vengono da personale del Consolato, ma dal un parente di una vittima che assume su sé la responsabilità della stesura delle lista dei nomi.
Scoprirò poi, avendolo incontrato, che tale elenco era stato curato dal Cav. Giulio Picolli, cugino di una vittima diretta, che mi disse di averlo tratto dalla lista ufficiale di tutte le vittime del 9/11/2001 rilasciato dalle autorità statali di New York e pubblicato dal New York Times nel 2002. Tele lista però a me non risultava indicasse sempre le nazionalità delle vittime, sicuramente non quelle italiane, come del resto tutti i memoriali on-line, incluso quelle della CNN, che avevo consultato.

Quando nel settembre del 2011 mi recai al Consolato italiano di New York con l'allora presidente dell'associazione, Dante Notaristefano, riuscimmo ad ottenere un parziale chiarimento: informalmente ci dissero che il motivo della segretezza dei nomi dei cittadini italiani era dovuto ad aspetti legali verso i risarcimenti alle famiglie delle vittime. Il che poteva avere un fondamento dovuto al fatto che in Italia nel 2004 era stata nel frattempo approvata una legge in favore delle "vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice" che prevede risarcimenti e agevolazione di natura pensionistica e assistenziale anche per i cittadini colpiti fuori dall'Italia. L'Italia non voleva quindi caricarsi di ulteriori indennizzi per quei suoi cittadini che erano già stati risarciti dall'amministrazione americana con una legge del dicembre 2001 e che stanziava un milione e seicento mila dollari del governo federale per tutte le famiglie delle vittime.

Sta di fatto che quei nomi non sono a tutt'oggi chiaramente noti. Districarsi nella loro individuazione non è possibile neppure utilizzando quel memoriale ufficiale, 911MEMORIAL, sito internet inaugurato parallelamente a quello fisico costruito a Ground Zero, negli stessi giorni in cui mi trovavo a New York per il Decimo anniversario degli attentati. Esso, infatti, non riporta le nazionalità, ma solamente il luogo di nascita; e i nomi presenti sono quelli con i quali le famiglie hanno scelto di ricordare i loro cari che non necessariamente corrispondono con quelli anagrafici.
Da quel sito risulta che sono nati in Italia, coi loro nomi talvolta ‘americanizzati’:

1. Angelo Amaranto
August 1, 1941–September 11, 2001
Born in: Salerno, Italy
Lived in: Brooklyn, New York

2. Lucia Crifasi
May 27, 1950–September 11, 2001
Born in: Sicily, Italy
Lived in: Queens, New York

3. Anthony Luparello
November 24, 1938–September 11, 2001
Born in: Sicily, Italy
Lived in: Queens, New York

4. John Frank Rizzo
July 28, 1951–September 11, 2001
Born in: Vizzini, Italy
Lived in: Brooklyn, New York

5. John Talignani
August 31, 1927–September 11, 2001
Born in: Lentigione, Italy
Lived in: New Port Richey, Florida

6. Gino Luigi Calvi
July 27, 1967–September 11, 2001
Born in: Naples, Italy
Lived in: East Rutherford, New Jersey

7. Elvira Granitto
March 1, 1958–September 11, 2001
Born in: Naples, Italy
Lived in: The Bronx, New York

8. Felicia Hamilton
June 20, 1939–September 11, 2001
Born in: Nusco, Italy
Lived in: Queens, New York

9. Franco Lalama
June 18, 1956–September 11, 2001
Born in: Pacentru, Italy
Lived in: Nutley, New Jersey

10. Sean Gordon Corbett O'Neill
May 24, 1967–September 11, 2001
Born in: Rome, Italy
Lived in: Rye, New York

11. Palmina DelliGatti
August 30, 1968–September 11, 2001
Born in: Avellino, Italy
Lived in: Queens, New York

12. Gerard F. Rauzi
March 24, 1958–September 11, 2001
Born in: Cloz, Trento, Italy
Lived in: Floral Park, Long Island, New York

13. Dominick A. Pezzulo
August 15, 1965–September 11, 2001
Born in: Italy
Lived in: The Bronx, New York 

Altri nomi della lista "Picolli" sono qui

Le morali di questa storia.
La prima è la scelta dello Stato italiano di scaricare i suoi cittadini, non solo dal punto di vista dei risarcimenti di cui avevano, e hanno, diritto, ma relegandoli al rango di numeri. L’11 settembre 2008 al Palazzo del Quirinale, nel suo intervento in occasione della commemorazione del settimo anniversario, il Presidente Napolitano, si limita a ricordare: “Tra esse dieci persone con cittadinanza italiana o con doppia cittadinanza, 260 di origine italiana”.
La seconda è che nessun giornalista si sia fatto carico di questa lacuna per gli oltre 15 anni che ci separano oggi da quei fatti.  

Delle suddette difficoltà provai a partecipare anche l’allora direttore del quotidiano La Stampa, Mario Calabresi, figlio del commissario di polizia, Luigi, ucciso a Milano nel 1972 dopo una campagna d'odio che ha avuto come voci primaria i periodici Lotta Continua e l'Espresso e come base di sostenitori ben 800 intellettuali; ma l'autore di quello che è stato il libro di testimonianza più letto in Italia, Spostando la notte più in là (2007), non ebbe modo, voglia o interessa ad ascoltarmi, almeno in quell'occasione. Così nel decimo anniversario della strage, La Stampa pubblicò una sovra-copertina del giornale che presentava una paginata di volti e nomi estratti dalla vecchia lista del Cav. Picolli col suo carattere approssimativo e indistinto.

I due attori principali, l’uno istituzionale l’altro nel doppio ruolo di giornalista e familiare, che presiederanno la già menzionata prima cerimonia del 9 maggio 2008 al Quirinale per la Giornata in Memoria, Giorgio Napolitano e Mario Calabresi, in quell’atto di centralizzazione delle vittime del terrorismo nella storia repubblicana del dopoguerra, manifestarono, in almeno in quelle due occasioni, un disinteresse esplicito per quelle del nuovo terrorismo d’inizio millennio.
Non reputo che ci sia stata solo la volontà, meschina e piccola Ragion di Stato, di far risparmiare alle pubbliche finanze altri risarcimenti. Il disinteresse di Mario Calabresi nel 2011 e la contabilità numerica di Giorgio Napolitano nel 2008, esprimono primariamente la loro attenzione verso le vittime degli ‘Anni di Piombo’: sono solo loro a dover acquisire centralità. Le altre esulano da quell’agenda: bastano i numeri o dei nomi a caso.

La conferma di questa tesi emerge da un altro dettaglio legato sempre alle liste dei nomi nella prima cerimonie dedicate alle vittime del terrorismo, il 9 maggio 2008.
Tutti i nomi ufficiali delle vittime italiane sono elencati nella pubblicazione promossa dalla stessa Presidenza delle Repubblica Per le vittime del terrorismo nell'Italia repubblicana, qui consultabile,  edito dall'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato e presentata e distribuita al Quirinale nel 2008, ma tale pubblicazione non contiene esattamente l’elenco di tutte le vittime italiane del terrorismo. È l’evidente frutto di un accomodamento politico. Sono presenti nomi e omissioni di nomi che hanno una lettura politica assai chiara.
Da una parte sono inclusi alcuni attentati e omicidi condotti da organizzazioni non clandestine in un contesto di violenza politica di piazza sull’asse fascismo/antifascismo che non si configura come eversione contro lo Stato.
Dall’altra, mancano tutti i nomi delle vittime italiane coinvolti negli attentati del terrorismo internazionale: da quelle colpite nel nostro paese dal terrorismo di matrice arabo-palestinese e di altre, a quelle colpite fuori dall’Italia per mano di terrorismi di Stato e gruppi eversivi diversi.
Un esempio della prima fattispecie  è l’inserimento del nome del giovane Roberto Crescenzio, arso vivo da un attacco di bottiglie incendiare (‘molotov’) al bar Angelo Azzurro di Torino nel 1977 a margine di un corteo antifascista organizzata da sigle della sinistra extraparlamentare e che poco prima aveva cercato di assaltare la sede dell’MSI. Il bar era ritenuto un ritrovo di fascisti, ma il giovane Roberto era lì per caso: estraneo alla dinamica di vendette e ritorsioni tra gruppi di estrema sinistra e destra. Certamente l’orrore suscitato dalle fotografie dello studente lavoratore seduto fuori del bar con ustioni sul 90% del corpo, fu enorme non solo in città e l’associazione di Torino ha custodito la sua memoria nei 40 anni successivi. Purtuttavia né il gruppo responsabile del servizio d’ordine del corteo, Lotta Continua, né la sentenza del giudici in Corte d’Appello nel 1984, configuravano l’organizzazione e i fatti come terrorismo. 

Un esempio della seconda fattispecie, oltre quello degli italiani dell’11 settembre, è l’omissione del nome del piccolo Stefano Gaj Tachè, di due anni, rimasto ucciso, con 37 feriti, il 9 ottobre 1982 quando un commando palestinese, probabilmente per conto della fazione del gruppo guidato da Abu Nidal, attaccò la Sinagoga di Roma all’uscita delle famiglie al termine della celebrazione per la festività dello Sheminì Azzereth. Portavoce della sua memoria, in questo caso, è la Comunità ebraica di Roma che ancora 30 anni dopo, il 9 ottobre 2012, chiederà al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di ''rimuovere il segreto di Stato'' per le ''troppe ombre e dubbi'' sull'attentato. Sul sito internet della comunità ebraica di Roma, sempre nel 2012, si legge:
«Per non dimenticare il sacrificio di tante, troppe persone, da tempo è stato istituito l’elenco delle vittime italiane che viene letto il 9 maggio al Quirinale, in occasione del “Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi”. In questo elenco manca, inspiegabilmente, un bambino di due anni, Stefano Gaj Tachè (…)».

Ma il piccolo Stefano non è il primo né l’unica vittima dimenticata, anche solo limitandoci al terrorismo arabo-palestinese. Il 27 aprile1973 a Roma l'impiegato della compagnia israeliana EL AL, Vittorio Olivares, venne ucciso da un terrorista palestinese che lo aveva scambiato per il direttore della società aerea. E qualche mese dopo ci fu il primo dei due attentati all’aeroporto romano di Fiumicino, quello del 17 dicembre 1973 con 32 morti e 15 feriti, cui seguirà quello del 27 dicembre1985 con 15 morti. Un decennio raccontato in un recente documentario, significativamente intitolato "Il terrorismo dimenticato" e visionabile integralmente sul sito di RAI Storia qui.

Nel 2009 a Parigi avevo individuato delle vittime italiane ancor più dimenticate. Avendone conosciuto dei familiari, al rientro in Italia scrissi la seguente lettere al direttore de La Stampa, con in calce anche le loro firme e a quella di Sergio Bazzega anche lui presente a Parigi ed allora membro del direttivo dell’associazione torinese :
« [Gentile Mario Calabresi,]
Se non ci sbagliamo durante la visita nel nostro paese del colonnello Gheddafi lo scorso giugno, sulla stampa italiana tra gli atti terroristici riconducibile al suo regime, l’attentato al DC10 d’UTA è stato citato una sola volta da un solo quotidiano.
Nelle rare volte in cui questa strage viene ricordata ci si dimentica di dire che in quell’attentato, tra le 170 vittime di 18 nazionalità diverse, c'erano anche 10 cittadini italiani. Sabato scorso è caduto il 20° anniversario di quella strage, dimenticata in Italia: delegazioni di associazioni di vittime del terrorismo da tutta Europa si sono unite ai famigliari nella commemorazione al cimitero parigino di Père Lachaise dove c’è una stele che ricorda l’attentato con tutti i nomi delle vittime.
L’occasione è stata utilizzata anche per una riflessione comune sull’enorme apertura di credito rivolta al colonnello libico negli ultimi mesi dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite.
Questi sono stati giorni di lutto, ma è difficile non notare che da parte dei vertici istituzionali alla retorica utilizzata oggi verso i nostri parà barbaramente uccisi in Afghanistan [nella missione Isaf], non sia corrisposta tre mesi fa una sola parola verso le vittime delle stragi compiute dal regime libico. La “realpolitik” è una prassi politica che non mettiamo certo qui in discussione, ma ciò non toglie che risulti incomprensibile il fatto che alla retorica della 'vittima del colonialismo' utilizzata a man bassa del colonnello libico, non sia stato possibile - in tutti questi anni - contrapporgli i crimini di Stato del suo regime che sono costati centinaia di vittime di tutto il mondo, tra le quali dei cittadini italiani.
Se ci permette di ricordali, su quel volo del 19 settembre 1989 c’erano: Marina Baraldini, 37 anni, Pietrino Bernardi, 56 anni, Stefano Cini, 24 anni, Gioacchino Diasio, 51 anni, Irene Pasqua in Feist, 26 anni, Marcello Ghirini, 36 anni, Ippolido Nievo, 62 anni, David Passigli, 31 anni, Kateleen Hilda Alvandian in Tolio, 39 anni e Mario Tolio, 52 anni.
[Grazie della sua corte attenzione,]
Olga Maiorana in Diasio, moglie di Gioacchino Diasio
Nicoletta e Francesco Diasio, figli di Gioacchino Diasio
Giorgio Bazzega, Direttivo Aiviter
Luca Guglielminetti, Relazioni Internazionali AIVITER»

Mario Calabresi pubblicò la lettera e aggiunse:
«Spero che questo spazio, seppur limitato, serva da parziale risarcimento per l’oblio che la politica italiana e i mezzi di comunicazione hanno riservato alle vittime dell’attentato del DC10 della compagnia francese Uta, esploso mentre stava sorvolando il deserto del Tenéré sulla rotta Brazzaville-Parigi. Il coinvolgimento del regime libico è stato provato da tempo, ma oggi molte ragioni - economiche, come di controllo dell’immigrazione illegale – sembrano impedire qualunque rispetto della memoria».

L’anno successivo, il 2010, le mie ‘scoperte’ su vittime e terrorismi dimenticati si allargarono fuori dall’Europa.

LATINO AMERICA

L'America latina è stata una delle aree nelle quali la guerra fredda ha preso le vesti di volta in volte di terrorismo rivoluzionario e di Stato. Tra gli effetti della rivoluzione castrista a Cuba del 1959, c'è stato infatti anche quello di creare un ponte all'URSS verso i paesi del Sud America scatenandovi una grande instabilità politica negli anni '60 e '70. Da una parte le varie avventure terroristiche, sotto forma di guerriglia rivoluzionaria urbana e rurale, venivano sostenute e finanziate dal regime comunista sovietico, attraverso l'isola caraibica, dando il via ad ogni sorta di rapina, violenza e attentati. Dall'altra gli USA intervenivano in forma eguale e contraria, non di rado aiutando colpi di stato da parte del potere militare, con il conseguente insorgere di regimi totalitari e relative pratiche di terrorismo di Stato.
Un caso paradigmatico, secondo lo storico Walter Laqueur, Il nuovo terrorismo (2002), è quello dell'Uruguay.
«I prototipi di questo nuovo terrorismo furono i Tupamaro dell'Uruguay. Erano emersi in un paese che per anni era stato il più progressista dell'America Latina e ancora negli anni '60 era tra i più liberali. I Tupamaros, che volevano un mutamento politico e sociale radicale, attirarono gli elementi migliori e più idealisti della giovane generazione e s'impegnarono in assalti alle banche e rapimenti, ma non in omicidi. All'inizio le loro attività ebbero successo dimostrando che un paese civile poteva essere facilmente destabilizzato. I Tupamaros ottennero l'attenzione dei media mondiali, ma in ultima analisi l'unico risultato delle loro operazioni fu la distruzione della libertà in un paese che, caso quasi unico nell'America Latina, aveva una tradizione democratica ininterrotta, per quanto imperfetta. La campagna di Tupamaros suscitò l'insorgere di una dittatura militare e distrusse il sistema democratico, provocando nel contempo la distruzione del loro stesso movimento».

I ruoli indiretti delle due superpotenze non lascia scampo a quasi nessuno dei paesi latinoamericani. Quando pensiamo alle loro vittime non dobbiamo dimenticarci che quei paesi, in primis l'Argentina, sono stati meta di quella emigrazione - dalla fine dell'800 all'inizio del 900 - che ha condotto almeno un paio di milioni di italiani in tutto il continente americano. Per la legge italiana i discendenti potevano facilmente richiedere la cittadinanza.
Questo significa che abbiamo vittime italiane, ed evidentemente soprattutto di origine italiana, su tutti i versanti che hanno connotato i tragici fatti di terrorismo e violenza politica in quei paesi. Tra questi proprio l'Argentina è un altro caso paradigmatico. Sui fatti di quel paese esiste una ricca letteratura per quanto concerne le vicende dei desaparecidos, i prigionieri politici che la dittatura militare del generale Vileda, incarcerava, tortura e uccideva fuori da ogni controllo e iter giudiziario.
Le vicende che hanno visto impegnate le Madri de Plaza de Mayo nel buio della dittatura argentina dal ‘76 all’ ’83, sono sicuramente un esempio di resistenza ad un regime che aveva inventato un agghiacciante fenomeno nuovo: i desaparecidos, gli scomparsi. Gli oppositori venivano prelevati a casa, sul luogo di lavoro, per la strada da uomini senza uniforme e scomparivano nel nulla: decine di migliaia di cui molti ancora oggi non si sa niente. Finivano in campo di detenzione clandestini e il modo di eliminarli, senza lasciare traccia del corpo, erano i famigerati “voli della morte”: ogni mercoledì un gruppo di persone, spesso giovani, venivano lanciati vivi dagli aerei nel Rio de la Plata e nelle profondità dell’oceano Atlantico.
La marcia delle madri, col fazzoletto bianco in testa e con le foto dei figli scomparsi, in Plaza de Mayo di fronte alla Casa Rosada, sede del Governo, è rimasto il simbolo positivo del periodo più buio della storia argentina recente. È un caso esemplare di lotta delle memoria dei familiari delle vittime contro un terrorismo di Stato, che non solo in argentina, aveva reinventato l’occultamento di cadavere nella pratica violenta di uno Stato.

Va tuttavia rammentato un altro pezzo di storia meno noto. L'ascesa al potere dei vari militari Videla, Massera e Agosti, non è stato un vezzo sadico della politica estera USA, come viene disegnato in molta pubblicistica italiana, ma anch'esso si inquadra, come per l'Uruguay, nel contesto della guerra fredda. Il periodo precedente alla dittatura quando - con tutti i limiti di un altro fenomeno politico singolare, il peronismo - l'Argentina era in regime di democrazia, almeno due organizzazioni terroristiche si muovevano sulla scena con rapimenti ed uccisioni indiscriminate a migliaia: quella dei montoneros (MPM) e quella del Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP).
L'eco di tali misfatti arrivò anche in Italia quando fu rapito e poi ucciso il responsabile della Fiat in Argentina, Oberdan Guillermo Sallustro.

Nel gennaio 2010 incontrai Victoria Villarruel in occasione del VI Congreso Internacional sobre Víctimas del Terrorismo, organizzato da fondazione universitaria San Pablo CEU, a Salamanca: mi consegnò un Cdrom con la versione elettronica del libro Los otros Muertos, sottotitolo “Le vittime civili del terrorismo guerrigliero degli anni ’70” promosso dalla sua associazione Centro de Estudios Legales sobre el Terrorismo y sus Víctimas, CELTYV, e mi farà seguire, via email, un file con una lista provvisoria della vittime italiane o di origine italiana, colpite in quegli anni: un totale di 259 nomi tra prima e dopo il colpo di Stato del generale Vileda (consultabile qui).

Come sempre accade, l’opinione pubblica internazionale fece le sue scelte in base alle simpatie politiche: le vittime del golpe a scapito di quelle del terrorismo rosso, che sono state dimenticare e private di giustizia ancor più dei desaparecidos i cui responsabili militari subirono almeno dei processi: uno dei quali anche in Italia, proprio per via della cittadinanza delle vittime ‘scomparse’.
Anche nel caso delle vicende dell'America latina sono emerse graduatorie di memoria e quindi di valore attribuito alle diverse vittime: quelle dei movimenti ‘rivoluzionari’ filosovietici e quelle dei regimi militare filoamericani. A distanza di decenni la sperequazione continua, come dimostra la battaglia di Victoria in Argentina. Ancora una volta è la figlia di una vittima a provare a ‘riequilibrare la memoria’ pubblica di un paese. Ancora una volta altri nomi d’italiani e italoamericani che non interessano la politica e i media del nostro paese.

CONCLUSIONI

Come osserva Annalisa Tota che in La città ferita (2004) ha studiato l'attività di 'imprenditori della memoria' condotta dai famigliari della strage di Bologna del 2 agosto 1980, le assenza hanno un valore politico:  “una assenza di memoria, infatti è spesso un atto denso di significato politico ancor più della sua presenza”. Vale per i monumenti dedicate alle vittime nelle città, vale per i nomi citati nelle cerimonie e nelle pubblicazioni ufficiali, vale per gli elenchi omessi per un tempo determinato dai governi e si evidenzia esplicitamente quando a sparire, oltre il nome, è anche il corpo della vittima.
Quando all’inizio del 2011 mi trovai di fronte al problema di identificare i nomi delle vittime italiane dell’11 settembre, ero consapevole che nei 40 anni precedenti un numero di cittadini italiani era stato colpito da terrorismi di ogni matrice, dentro e fuori il nostro paese, la cui cifra non era lontana da quella dei presenti nell’elenco ufficiale. Colpite da ogni fronte: dall’Esercito segreto armeno (contro la sede della Turkish airlines a Roma il 10 marzo 1980), all’Armata rossa giapponese (contro il circolo della marina USA a Napoli il 14 aprile 1988), dai gruppi della guerriglia ai regimi militari sudamericani; dal GIA, Gruppo islamico armato, nell’Algeria del 1994 a quello anticastrista della Fondazione cubano-americana di Miami, a Cuba del 1997. Per giungere poi a quelle del post 11 settembre, a partire Maria Grazia Cutuli, giornalista Corriere della Sera, in Afghanistan, il 19 novembre 2001, fino a quelli più recenti al museo Bardo di Tunisi, a Parigi e Nizza.

La legge n. 206 del 3 agosto 2004 "Nuove norme a favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice" e la n. 56 del 4 maggio 2007 che istituisce il 9 maggio il Giorno della memoria “al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice”, riconoscono le vittime sia di attentati compiuti sul territorio nazionale che extranazionale, ma la lista del 2008, la pubblicazione del presidente Napolitano, che contiene anche i nomi ‘recenti’ delle vittime delle nuove BR (Biagi, D’Antona e Petri), non comprende quella marea di nomi che passando il tempo continuavano ad emergere da un passato non lontano e da luoghi remoti.
Qual è stato il criterio di inclusione ed esclusione?
La risposta più ovvia è che le esclusioni abbiano riguardato coloro che sono stati colpiti da terrorismi il cui obiettivo eversivo non fosse lo Stato italiano.
Ma non è evidentemente così, altrimenti ci sarebbe solo le vittime del terrorismo comunista e di una parte di quello neofascista, quando invece ci cono le vittime delle stragi che se non propriamente “di Stato”, sicuramente vedevano un ruolo attivo in parte dei suoi apparati, come mandanti o come deviatori degli accertamenti giudiziari. E poi le vittime della violenza politica ‘di piazza’ di organizzazioni che non avevano carattere clandestino e la cui finalità era di difesa militante da fascisti e antifascisti.
Il senso degli aggiustamenti e omissioni della lista presente nella pubblicazione del Quirinale del 2008 è stato quello di includere, solo, tutte quelle vittime, ‘attori passivi’ di una stagione precisa le cui istanze di memoria molteplici erano state portate avanti per decenni da associazioni di vittime e parti politiche, e i cui limiti era circoscritti a quelle che lo Stato italiano considerava un capitolo da chiudere: gli “Anni di piombo’. Con tutto il loro portato di estremismi violenti e ambiguità da parte degli ‘attori attivi’ con le relative ‘zone grigie” nello Stato come nella società civile. 
Le vittime prive di rappresentanza sociale o di rappresentanza troppo debole, sono state sacrificate all'obio.

Un’altra ragione risiede nello stato di sospensione in cui giacciono le vittime di conflitti non conclusi, come quello israelo-palestinese, o quelle verso quali le istituzione nazionali non state in grado di fornire un soluzione, un'exit strategy, una pacificazione. Sono questi i casi dell’Argentina, ma anche dell’Algeria, mentre quello più recento della galassia jihadista dall’11/9 in avanti, è di fatto ancora in corso.
  
Quella lista che stavo redigendo dei caduti italiani dei vari terrorismi omessi da quella ufficiale del Quirinale, stava assumendo quella dimensione di vertigine indagata da Umberto Eco (Bombiani, 2009). Era destinata ad essere sempre incompleta come è nella natura di tutte le liste che possono essere aggiornate, ridotte ed incrementate all'infinito. La si può consultare qui sul sito web di Aiviter, 'congelata' al 2015, quando è terminata la mia collaborazione con l'associazione. Ho quindi cercato ora di rendere ovvie le relazioni che tengono insieme i nomi di quella lista: una forma per scolpirli,  onorarli, per strapparli dall'oblio e per fornire alla loro morte un significato: almeno un minimo valore conoscitivo che ci informa sulle scelte, sempre politiche, degli attori istituzionali e sociali che ruotano intorno al fenomeno del terrorismo.

mercoledì 22 agosto 2018

Libro dell'incontro. Il difficile confronto tra vittime e responsabili degli anni di piombo



Tre anni fa usciva il “Libro dell’incontro” (Il Saggiatore, 2015), il resoconto di un’esperienza di incontri, dialogo e giustizia riparativa fra un gruppo di vittime e di responsabili della lotta armata degli anni settanta in Italia, curato da tre mediatori: il padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato. Questa intervista costituisce un sorta di recensione critica di uno dei partecipanti a tale gruppo, Antonio Iosa, che ha prima promosso e poi abbandonato. Dall’intervista emergono limiti e difficoltà così come sono stati percepiti da una vittima del terrorismo durante il percorso svolto e che, dopo aver tenuto per sé queste riflessioni, ritiene oggi di doverle condividerle per aggiornare il dibattito su temi di grande interesse ed attualità che ci informano delle aspre problematiche collegate alla gestione della fine dei conflitti politici armati.
Il testo dopo aver girato in via informale è stato accettato e pubblicato sulla Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza (RCVS) Anno 12, Numero 2, Maggio-Agosto 2018, pp 87-91.