domenica 11 giugno 2017

Psicologia dell'emergenza e resilienza, gli assenti di Piazza San Carlo e del terrore

Quanto si è visto in Piazza San Carlo non è diverso dalla fuga precipitosa di un branco di gazzelle o l'alzarsi in volo improvviso di uno stormo di uccelli a seguito di un pericolo vero o percepito tale.
Le impressionanti immagini che osserviamo dall'alto delle persone in fuga è la presa diretta dell'attivazione, in poche frazioni di secondi, del sistema nervoso simpatico di migliaia di persone che prende il comando emotivo e fisico dei loro corpi aumentandone il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la disponibilità di glucosio per i muscoli che devono far scattare la fuga.


Contemporaneamente ogni facoltà superiore, razionale, viene inibita; quindi in quei pochi secondi migliaia di corpi 'pensano automaticamente' solo in termini 'mors tua, vita mea'. Da qui la possibilità di travolgere e calpestare senza pietà chiunque: unico pilota, la paura cieca.
Al di là delle polemiche sull'organizzazione, quanto colpisce è il fatto che l'enorme numero di feriti sia contabilizzato e comunicato dai media e dalla politica in termini essenzialmente sanitari, ma non in termini psicologici, cioè di trauma.

Se la coincidenza temporale con l'attentato del Tower Bridge a Londra ha fatto sprecare molte parole su paralleli insensati con il terrorismo, come causa del panico sviluppatosi a Torino; quanto invece accomuna i due fenomeni è sul piano delle conseguenze traumatiche di chi si è trovato coinvolto in quei fatti distinti e distanti.
Negli individui esposti a eventi terrorizzanti, infatti, la paura può restare profondamente impressa nei meandri della psiche per molto tempo con disturbi che, un secolo fa, dopo la Prima Guerra mondiale, venivano definiti da "scemo di guerra", e che, dopo la guerra del Viet-Nam, negli anni '70 la ricerca clinica sui reduci ha definito "disturbo post-traumatico da stress", o DPTS.
L'elaborazione dei fatti violenti vissuti, quando si è rischiato di morire o di dare la morte ad altri, e per i familiari di chi è morto, è un processo complesso che richiede, in alcuni casi, non meno cure delle ferite fisiche.
Queste cure, come ha giustamente sottolineato l'unica voce che si è sentita in questi giorni, l'amico Luciano Peirone, curatore del libro "La vita ai tempi del terrorismo" (qui scaricabile), sono essenzialmente due: la psicoterapia e la resilienza. La prima è condotta dagli psicologi dell'emergenza, la seconda dalla capacità di reagire alimentando la coesione sociale delle comunità da parte delle loro classi dirigenti.

Di questo non c'è ombra di dibattito, né tanto meno di servizi e politiche che si prendano in carico del trauma di Piazza San Carlo: la prima, la psicoterapia, è lasciata al mondo del volontariato, la seconda, la resilienza, non è in agenda di nessun soggetto pubblico, politico o civile.

Questo a Torino in Italia…

Il trauma specifico che si innesta con il fenomeno terroristico è stato oggetto di un seminario europeo che si è tenuto a Madrid l'8 e 9 giugno: "Providing Integral and Specialised Assistance to Victims of Terrorism .
Tale trauma ha una valenza particolare, che lo rende diverso dai fatti di Piazza San Carlo o da una catastrofe naturale, perché ha un portato nella dimensione politica collettiva che scaturisce dalla natura politica della violenza subita. La specificità del trauma da terrorismo è che colpisce e mina in profondità il contratto sociale; non investe solo le vittime dirette ed indirette, ma tutta la società civile e politica, per usare le parole spese a Madrid dall'amico Dominique Szepielak, psicologo dell'Associazione francese delle vittime del terrorismo.


Il punto è che in Italia, né per le vittime dei traumi di fatti come quello Piazza San Carlo, né per quelle del terrorismo, ci sono politiche pubbliche d'intervento: psicologia dell'emergenza e resilienza  delle comunità sono lasciate alla buona volontà dei singoli… l'ennesimo vergognoso ritardo italiano.

Nessun commento:

Posta un commento