lunedì 5 giugno 2017

Marshall McLuhan, il terrorismo come teatro


"Era il febbraio 1978 - l’Italia era in piena emergenza terrorismo e poche settimane dopo avrebbe vissuto il rapimento e la barbara uccisione (dopo 55 giorni di prigionia) di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse - quando il sociologo canadese ed esperto di comunicazione Marshall McLuhan rilasciò un’intervista a Il Tempo in cui invitava a far calare il buio totale sugli uomini del Terrore."
Così il Tempo ripresenta l'intervista sulla quale si può ben riflettere ancora oggi.

McLuhan, partendo dalla considerazione che lo scopo primario delle azioni terroristiche è raggiungere la massima pubblicità attraverso i media per intimorire ed educare, illustrava con lucidità che «il terrorismo è una forma di teatro: dando coverage (ndr, copertura mediatica) al terrorista gli si offre un palcoscenico e un copione».


Sono stati fatti tentativi di imporre il silenzio stampa, sia negli Anni di piombo che successivamente, e ancora oggi, nei casi di rapimento.
Utilizzare il silenzio in una società aperta non è però possibile, e neppure eticamente accettabile. Nell'epoca dei social media poi risulta semplicemente impossibile censurare alcunché, almeno fino a quando alla Rete sia garantita una certa neutralità.
Certamente tg che 24 ore su 24 replicano le immagini di una strage mettendo intorno qualche analisi stringata, quando non superficiale, dai tempi  televisivi o dagli spazi di testo dei social, è un evidente vantaggio per gli autori dell'attentato.

L'osservazione successiva - "la polizia per prima avrebbe il dovere di mettere il blackout su tutte quelle notizie e informazioni che possono comunque aiutare, direttamente o indirettamente, i nemici dello Stato" - è stata da allora praticata dalle forze di sicurezza, ma con gravi e frequenti "buchi". Talvolta clamorosi come recentemente nel dopo-Manchester, con tanto di incidente diplomatico UK-USA per la fuga di notizie passate dagli inglesi agli americani.
Dopo ogni attentato abbiamo la cantilena politica della mancata prevenzione per carenza di collaborazione tra i servizi di intelligence dei vari paesi, ma non è difficile comprendere che le diverse nazioni, coi loro servizi, hanno interessi talvolta diversi e divergenti, anche quando 'cugine' e alleate, e anche di fronte alle sfida dei terrorismi.

Più interessante il consiglio ulteriore di McLuhan che segue: "Dico di più: visto lo sviluppo che sta prendendo il terrorismo politico, proprio grazie all’uso spregiudicato e intelligente che sa fare dei media, sarebbe il caso che i governanti ricorressero ad una sorta di contro informazione, volutamente vaga e in certi casi addirittura falsa per sconvolgere i piani dei terroristi."
Tale consiglio fu forse preso in considerazione poche settimane dopo la sua uscita nell'intervista su Il Tempo: il falso comunicato n. 7 della Brigate Rosse che annuncia l'avvenuta esecuzione di Moro, il cui corpo si sarebbe trovato nel lago della Duchessa. Secondo alcuni un esperimento di psicologia sociale per testare l'effetto sull'opinione pubblica dell'annuncio della morte dello statista democristiano. 
Certamente è stato preso alla lettera dopo il più clamoroso attentato di questo secolo: nella "War on Terror" successiva all'11 settembre 2001, con le famose bugie di Bush e Blair sulle armi di distruzione di massa nel'Irak di Saddam Hussein.
In questo secondo caso sappiamo che non hanno sconvolto affatto i piani dei terrorismi, anzi: senza la preventiva destabilizzazione dell'Irak sarebbe stato probabilmente impossibile vedere l'insorgere dell'IS, o Daesh, nelle forme e dimensioni che conosciamo.

Tutto ciò, in vero, non è responsabilità di McLuhan: il consiglio era in fondo ingenuo. La dinamica della contro-informazione non era proprio una novità degli anni '70 del '900. Il rapporto tra le propagande nelle guerre, come nei conflitti terrorismi/Stati, è assai più complesso e antico.

L'intuizione però forse più feconda del pensatore canadese è la metafora teatrale del rapporto tra terrorismo e media. Già dagli anni '80 gli studiosi iniziarono giustamente  a parlare di rapporto simbiotico tra i due termini.


Quanto però vorrei qui sottolineare è l'utilità di estendere, la metafora della "forma di teatro", dal concetto di terrorismo a tutti i conflitti. Nel senso che, da un certo punto di vista, tutti i poteri, contro-poteri inclusi, sono rappresentazioni. Rappresentazioni teatrali dotate di narrative da propagare/propagandare, con i mezzi di comunicazione a disposizione, per convincere noi a giocare il nostro ruolo "in commedia", che diventa "in tragedia" quando il conflitto è violento.
Interesse dei promotori dei conflitti è attirare la maggior parte degli attori nel proprio campo, spingerci a schierarsi in modo manicheo. Ci sono ruoli da coprire a disposizione per tutti, su entrambi i fronti: dal militante da tastiera a quello con le armi.
Il fattore chiave è proprio la comunicazione: intorno al terrorismo, e ai vari conflitti, avviene sempre una guerra di parole, uno scontro di narrative con le loro verità e bugie.
Quello che conta allora, in ultima analisi, è quali voci scegliamo di ascoltare per farci la nostra idea di quello che ci succede interno e provare, se  è il caso, a cambiare il copione e il ruolo propinatoci.

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