venerdì 27 novembre 2015

L'Italia (che non è la Danimarca) parte con la prevenzione soft del terrorismo?

Breve intervista a Giovanni Sabato su L'Espresso di questa settimana dedicato a "Cosa farà l'Italia" dopo i fatti di Parigi: i primi timidi passi verso il contrasto alla radicalizzazione e le politiche di CVE sul modello Europeo.


«Approvare eggi dure è facile,
il difficile è fare qualcosa di incisivo.
Noi abbiamo scelto un’altra via non per
ideologia, ma perché funziona». Parole di
Allan Aarslev, a capo del ramo poliziesco
di un programma d’eccellenza nella
prevenzione dell’estremismo: quello
di Aarhus, la seconda città danese. La
Danimarca era una delle maggiori fonti di
jihadisti diretti in Siria. Molti da Aarhus.
La città però da un paio d’anni ha avviato
un programma ad ampio spettro di
prevenzione e recupero. Pre Ben
Bertelsen, lo psicologo che lo guida, ha
constatato che i suoi giovani concittadini
non si distinguevano dai tanti estremisti
studiati nei decenni passati. L’idea
consolatoria che si tratti di squilibrati o
psicopatici è da tempo sconfessata. Né
la miseria economica o culturale spiega
tutto: molti sono benestanti e istruiti. I
meccanismi psicologici sono complessi,
e includono molti elementi della normale
ricerca di identità dei giovani, come
il bisogno d’appartenenza, di rilevanza
e di conforto esistenziale. Perché a volte
ciò deragli verso il fanatismo violento
non è del tutto chiaro. Spesso però
conta la marginalità sociale. Avvertita
di persona, come nel ricordo d’infanzia
di un attentatore francese: un passante
urtato per sbaglio dalla sorella ha sputato
a terra con disprezzo chiamandola
«sporca araba». «Allora ho capito cosa
sarei diventato», ha raccontato.
La municipalità ha coinvolto scuole,
famiglie, assistenti sociali, associazioni
giovanili, comunità religiose, polizia. Si è
istruito chi era a contatto coi ragazzi sui
segni di radicalizzazione: un improvviso
interesse religioso, la frequentazione
assidua di certi siti, cambi d’aspetto,
amicizie. Pur a fatica, si è collaborato
con una moschea incline al
fondamentalismo, che ha cambiato
atteggiamento. Ai giovani a rischio o
radicalizzati, incluso chi rientra dalla
Siria, si offre un tutor sia per i problemi
pratici sia per dubbi politici e religiosi.
Senza discutere le convinzioni religiose,
ma per evitare ossessioni totalizzanti.
«Puoi batterti per qualsiasi ideale, ma
non con la violenza» è il messaggio.
E pare funzioni: nel 2012 e 2013 lì si
erano arruolata una trentina di jihadisti,
nel 2014 solo uno.

«E' questo IL modello vincente,
un’eccellenza anche fra le realtà del
Nord Europa. Nel Sud siamo in ritardo,
ma l’Italia ha iniziato a muoversi»,
spiega Luca Guglielminetti, membro del
Radicalisation Awareness Network (Ran)
istituito dall’Ue nel 2011 per mettere a
sistema le realtà europee. «Col ministero
della Giustizia abbiamo formato i quadri
e gli operatori di prima linea. A Torino
a maggio abbiamo creato un gruppo
con amministrazioni pubbliche, carceri,
questura, polizia municipale, gruppi che
lavorano con i migranti, scuole, comunità
religiose. E ora cerchiamo di esportare
il modello. Il ministero dell’Interno è
partito a febbraio, per lavorare fra l’altro
su comunicazione e aiuto alle famiglie».
Restano però iniziative un po’
sporadiche. «Manca un coordinamento
tra istituzioni e società civile. I soldi
ci sono, anche dall’Europa. Ora va
costruita in ogni città una rete capace di
interventi su misura. È un lavoro lungo.
Ma per questo dobbiamo partire subito».

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