lunedì 27 aprile 2015

La società civile di fronte al caso Lo Porto


 



Quasi tutti gli aspetti sono stati trattati di fronte alla morte del volontario Giovanni Lo Porto, rapito tra Pakistan e Afghanistan il 19 gennaio del 2012 e morto a gennaio in un raid condotto da un drone USA.
Beppe Servegnini sul Corriere della Sera ha scritto che “Giovanni Lo Porto è morto quattro volte. Quando è stato rapito, quando è stato dimenticato, quando è stato colpito, quando la notizia della sua uccisione è stata nascosta.” Ovvero: “dalla ferocia disumana dei rapitori, dalla nostra distrazione, da una bomba dal cielo, dal segreto militare”.
L’aspetto che vorrei sottolineare è quello della dimenticanza, o della nostra disattenzione, perché è questo il fattore che ha fatto di Lo Porto “un sequestrato di serie B”, come ha detto il padre Vito.
Il rango della vittima ha nelle solidarietà che gli viene espressa la miglior misura.
Chi, come il sottoscritto vive a Torino, ha potuto negli ultimi mesi constatare la diversità, anche quantitativa, di solidarietà verso le vittime parigine di Chalie Hebdo e quelle dell’attentato al Bardo di Tunisi. La mobilitazione a livello di comunicazione e di partecipazione in piazza alla prima è stata assai più estesa per il primo attentato che non per il secondo, nonostante questo contasse vittime italiane e torinesi.
Così nei rapimenti. Negli anni pregressi abbiamo visto le mobilitazioni in favore delle vittime illustri, dalla Giuliana Sgrena a Domenico Quirico. E parimenti l’assenza di mobilitazioni per volontari come Giovanni Lo Porto, o lavoratori, come gli ingeneri rapiti e uccisi in Nigeria da Boko Haram nel 2012 e 2013: Franco Lamolinara e Silavano Travisan.
E’ naturale che accada tutto ciò?
Si potrebbe dire che è normale che una vittima legata al mondo della comunicazione, grazie all’appoggio del suo entourage, sia fornita di maggiore appoggio, solidarietà e mobilitazione.
Ma forse occorrerebbe partire da un altro punto di vista e domandarsi: come mai la società civile non si è dotata di strumenti atti a garantire un livello equanime di appoggio, solidarietà e mobilitazione a tutti i rapiti dal terrorismo internazionale?
Naturalmente in altri paesi europei esistono associazione che svolgono un ruolo di appoggio ai rapiti e ai loro familiari. Organizzazioni che oltre a svolgere un ruolo di sostegno legale e psicologico alle famiglia, fronteggino anche il problema di tenere alta la mobilitazione in favore di quei rapiti, che per ruolo e professione non godono di “buona stampa”.
Certamente si tratta di un ruolo anche delicato, specie di fronte agli ordini di silenzio stampa che arrivano puntuali dall’unità di crisi della Farnesina che gestisce le trattative. Ordini che però sono stati spesso elusi da testate che si trovavano propri collaboratori coinvolti in rapimenti. Ordini che talvolta vanno elusi per garantire una attenzione e un impegno maggiore da parte della stessa Unità di crisi.
Allora, giustamente ci si scandalizza dell’Aula parlamentare semideserta venerdì pomeriggio scorso di fronte alla relazione del Ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che relazionava sul caso Lo Porto, ma anche la società civile, capace in altre occasione di mobilitazioni per le cause anche le più lontane ed inusitate, dimostra una propria debolezza e una incapacità di esprimere empatia verso chi subisce certe forme di violenza politica.

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