sabato 22 novembre 2014

Intervento workshop finale del progetto Counternarrative for Counterterrorism C4C





(saluti e ringraziamenti)

Partirei con una suggestione. Se l'esplosione di testimonianze delle vittime del terrorismo italiane, con i libri e documentari di o su di loro, ha coinciso con un periodo che ha visto approdare al Parlamento italiano la legge sui dritti delle vittime (2004) e l'istituzione della Giornata delle memoria a loro dedicata (2007), si potrebbe dire che progetti come questo, o quello di cui si occupa Stéphane Lacombe, entrambi promossi dalle associazioni italiana e francese, sono il frutto dell'istituzione di analoga giornata dedicata alle vittime del terrorismo varata dal Parlamento europeo un mese dopo la strage alla stazione di Atocha a Madrid del 2004 che ha aperto la strada ai successivi bandi della Commissione, in particolare della DG Home: quella che ha finanziato C4C.

La periodizzazione delle testimonianze e del loro ruolo potrebbe però avere anche una lettura diversa. Potrebbe infatti riecheggiare quanto occorso ai testimoni della Shoah. Seguendo il tracciato delineato da Annette Wieviorka, in L'età del testimone, da una prima fase nell'immediatezza dei fatti, peraltro con un impatto assai limitato sul grande pubblico e sugli studi storici, è seguita l'esplosione a seguito del processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961 quando i testimoni cominciano ad acquisire uno status sociale preciso che è stato poi a sua volta stabilizzato ed alimentato da televisione e cinema, fino a giungere alla Visual History Foundation di Spielberg con il suo immenso archivio audiovisivo di interviste, ma passando da un altro processo storico, quello Papon in Francia del 1997, nel quale avviene il passaggio di testimone alla generazione successiva, quella delle figlie e dei figli.

Se osserviamo le vittime del terrorismo italiano possiamo notare molte analogie: un quantità scarsa di testimonianza nell'immediatezza dei fatti, quelle dirette di Sossi e di Lenci, la raccolta del giornalista Gigi Moncalvo, gli atti del convegno Aiviter cui seguirà, a fine anni '80, quello di Gemma Calabresi.

La disattenzione verso tali testimonianze è provata non solo dalla scarsissima circolazione di tali testi, ma anche da un fatto che abbiamo acclarato pochi giorni fa. Nel 1989 quando la RAI trasmette un dossier giornalistico di successo, e diventato poi libro, La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, non appare nessuna testimonianza delle vittime, seppure la redazione della trasmissione ne avesse raccolte alcune in audio. Questa la scoperta recente in occasione dell'intervista a Vittorio Musso, ferito da Prima Linea nell'attacco alla SAA di Torino nel 1979, condotta da una ricercatrice danese.

Anche in questo caso abbiamo, come per i testi della Shoa, un decennio in cui non appaiono più testimonianze, gli anni '90. In quel decennio si affermano come unici testimoni degli anni di piombo esclusivamente gli ex terroristi, con la sola particolarità dell'uscita del film "La seconda volta" di Calopresti in cui per la prima volta il personaggio principale è una vittima del terrorismo (ispirata a Lenci e a Musso).

Le vittime riappaiono pubblicamente ad inizio anni 2000, dopo gli attentati dell'11 settembre e la comparsa delle nuove BR che tornano ad uccidere in Italia.

Lo stesso Sergio Zavoli con Olga D'Antona, inaugura la nuova stagione nel 2004, cui daranno grande impulso i documentari trasmessi da Giovanni Minoli su RAI Educational e Storia. Dal 2006 in avanti si susseguono i libri di Torregiani, la raccolta di interviste dei giornalisti Fasanella, Arditti e Telese. E poi i libri di figlie e figli: Calabresi, Tobagi e Casalegno, fino a quelli più recenti di Giralucci, Coco e Tarantelli, solo per citarne alcuni. Ai quali si aggiungono documentari, mostre e fiction Tv, come quella trasmessa a gennaio scorso dalla RAI, Gli anni spezzati.

A metà del decennio scorso, appaiono anche due riflessioni originali, da ricercatori provenienti dall'area di Lotta Continua, che per la prima volta si distaccano con coraggio dalla lettura benevola e giustificazionista per quanto riguarda fatti di cui sono stati soggetti nella loro militanza politica giovanile. Oltre alla generale denuncia della carenza di riflessione sull’uso della violenza in politica contro lo Stato e l’avversario politico, che ha caratterizzato le loro storie e quelle di quasi tutte le culture e sub-culture politiche italiane, in particolare sulle vittime di tale violenza i due autori fanno affermazioni che voglio integralmente riportare.

Luigi Manconi, sociologo e oggi presidente della Commissione parlamentare straordinaria sui diritti umani, nel suo saggio del 2008 Terroristi italiani. Le Brigate rosse e la guerra totale 1970-2008, proponendo un progetto di commissione parlamentare di studio e di alto livello che raccolga le storie dei vari attori di quelle vicende, in seno al quale dare alle vittime un ruolo pubblico "altissimo e determinante", scrive:

"Le vittime e i familiari delle vittime, dunque, come protagonisti di quell'opera di ricostruzione storico-politica, di cui rappresenterebbero l'elemento cruciale e ineludibile, il "fattore umano" non cancellabile. Da ciò potrebbe discendere una intensa funzione pedagogica, un forte ruolo testimoniale, un denso significato di ammonimento: e la continuità non dimettibile di un messaggio della memoria".

Anna Bravo, docente di Storia sociale all'Università di Torino e studiosa di Primo Levi, pochi anni prima, in una intervista alla rivista Lo Straniero, sottolinea:

"Quello che mi indigna è il fascino che i reduci del terrorismo sembrano esercitare sui media. Su di loro si scrivono libri, si fanno film, si pubblicano loro interviste. E sono per lo più povere cose, parole di aspiranti caporali. Sulle vittime invece, quasi silenzio. Eppure sono molto più “interessanti” Guido Rossa, Bachelet, Casalegno che non i loro assassini – dico interessanti proprio nel senso di narrativamente ricchi, non nel senso di umanamente nobili. Credo che in nessun altro periodo si sia dato tanto spazio ai “cattivi” e così poco alle loro vittime."

Il carattere pedagogico da una parte e la qualità narrativa dall'altra, vengo per la prima riconosciuti.

Nel frattempo però il ruolo delle testimonianze viene problematizzato in forma anche assai critica. E' la stessa storica francese Annette Wieviorka che pone i problema del contrasto tra la storia scritta dalle vittime/testimoni e quella scritta dagli storici, per quanto riguarda la Shoa. Certamente le testimonianze non sono storicamente precise e attendibili, ma come precisa Tzvetan Todorov, nella prefazione a I sommersi e i salvati:

"La semplice memoria del male non è sufficiente a prevenirne il ritorno; bisogna che il richiamo del male sia sempre accompagnato da una interpretazione e da istruzioni per l'uso; ed è proprio quello che ci offre Levi nei Sommersi e i salvati. Levi non si accontenta di rievocare gli orrori del passato, ma si interroga - a lungo, con pazienza - sui significati che tali orrori hanno oggi per noi".

Il valore della testimonianza ha quindi un peso pedagogico, non tanto dal punto di vista storico, quanto piuttosto come lettura del passato con gli occhi di oggi e di fronte alle sue sfide che ripresentano il male.

In occasione della VII Giornata Europea in ricordo delle Vittime del terrorismo, l’11 marzo 2011 a Bruxelles cercai di precisare:

"…se risulta assai sospetta la verità rivelata da un ex terrorista, anche quando questo si fosse pentito o dissociato dalla sua precedente attività omicida, pure l’attività di testimonianza delle vittime ha dei limiti verso la verità. E’ sempre Primo Levi che ci insegna che non spetta alle ex vittime di capire i propri assassini.

Il valore delle testimonianze delle vittime, in relazione alla necessità di fornire senso ai fatti, di svelarne la verità, risiede infatti nel terzo termine: il dialogo. La verità si svela cioè quando la testimonianza della vittima diventa dialogo con qualcuno che interroga o interagisce. Si tratta dunque di una pratica intersoggettiva e non referenziale, non lontana dal dialogo socratico.

Una pratica attiva di confronto che risponde, inoltre, a quel bisogno sociale diffuso che non si accontenta della giustizia, cioè di punire, ma che vuole scoprire perché il crimine è stato commesso e da quali cause sia stato generato per cercare di prevenirne altri."


Il ruolo educativo di tali testimonianze, che è stato al centro del progetto C4C, non è quindi né astratta ricerca di pacificazione, e neppure fissa commemorazione di fatti tragici, ma dinamico e concreto disvelamento di verità relative ma certamente indispensabili affinché la società civile, e in particolare i suoi giovani, possa condividere il senso delle ferite che il terrorismo ha inferto al suo corpo, aiutandola ad interpretare i fatti e le sfide dell'attualità, di cui discuteremo domani.

Al dialogo con gli studenti, abbiamo aggiunto anche "spunti interpretativi ed istruzioni per l'uso", per usare i termini di Tzvetan Todorov, che costituiscono la parte metodologica del progetto C4C, di cui ci parleranno Luca Toselli e Mirinella Principiano.


(Ora mi limiterò a presentare il percorso logico che ha sotteso l’articolazione del progetto C4C con l’ausilio di qualche slides).

lunedì 10 novembre 2014

Le vittime di terrorismo all'Università di Brescia


LUNEDÌ 10 NOVEMBRE 2014 ore 08:30 - Aula 3 - DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA UNIVERSITA' DI BRESCIA.
Nell’ambito del Corso di Criminologia (prof. Carlo Alberto Romano) si terrà un incontro, relativo al tema della Vittimologia e promosso in collaborazione con AIVITER - Associazione Italiana Vittime del Terrorismo - Gruppo scuola, dal titolo: ”Le vittime di terrorismo”.

domenica 2 novembre 2014

Il rapporto della sinistra con la violenza dagli anni di piombo a oggi

Non si può recensire il libro di Luigi Manconi del 2008, Terroristi italiani. Le Brigate rosse e la guerra totale 1970-2008, senza sottrarsi alla lettura di un altro saggio breve che viene ripreso nel secondo capitolo del libro a proprosito del mito della "perdita dell'innocenza" a seguito della Strage di Piazza Fontana. Si tratta del testo di Anna Bravo, Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci, pubblicato pochi anni prima, nel 2004, sulla rivista di studi storici Genesis, qui reperibile.
Siamo di fronte a due testi frutto dell'elaborazione di due studiosi che hanno in comune la passata militanza in Lotta Continua, che sono quindi coinvolti soggettivamente in ciò su cui riflettono, ma che si connotano entrambi come primi seri tentativi di critica, certo anche auto-analisi e auto-critica, che rappresentano un salto netto qualitativo rispetto alla precedente cospicua mole di letteratura di e su quell'area politica: tanto quella prodotta da altri ex militanti (da Sofri a De Luca) sia dei tentativi di analisi esterni come quella di Aldo Cazzullo.


PARTE PRIMA

Entrambi gli Autori fanno i conti per la prima volta "con il rapporto irrisolto con la violenza. Non la violenza che lo stato e i gruppi neofascisti hanno rovesciato sui movimenti, non la violenza esercitata contro il corpo delle donne, ma quella di cui in vario grado portiamo una responsabilità per averla agita, tollerata, misconosciuta, giustificata – una questione che è rimasta fuori o ai margini estremi della ricerca storica e della riflessione politica." Anna Bravo si chiede perché negli anni Settanta sia mancato un pensiero originale sulla questione- violenza, perché il '68 non abbia avuto uno sbocco non violento: "sarebbe bastato guardarsi intorno per incontrare teorie e pratiche altre da quelle del marxismo ortodosso o critico, per scoprire le opere di Gandhi, Thoreau, del nostro Capitini, la disobbedienza dei radicali, e La banalità del male di Hannah Arendt, dove si racconta come in Danimarca migliaia di persone, in genere senza alcuna esperienza di clandestinità, si fossero mobilitate, nel 1943, per traghettare in Svezia i loro concittadini ebrei, facendo meglio e di più di qualsiasi organizzazione armata." Invece quello che è capito è ben descritto in questo passo: "Sarebbe futile dirottare ogni responsabilità sulla tradizione rivoluzionaria, marxista, comunista, della violenza, su quegli intellettuali maturi e autorevoli che condividevano le aspettative palingenetiche, su quell’unico partigiano che dichiarava in interventi pubblici di aver consegnato dopo la liberazione soltanto i “ferrivecchi”. Ci siamo scelti determinati maestri e compagni di strada (e per alcuni di loro i movimenti sono stati a loro volta maestri) perché ci riconoscevamo profondamente nell’ideologia della violenza riformatrice, fatta uomo nella figura del partigiano, del combattente di Spagna, del comunardo, del ribelle risorgimentale, del cittadino in armi della rivoluzione francese - un condensato di combattentismo maschile vissuto come cifra naturale della lotta.".

La tesi giustificazionista della scelta violenta della "fine dell’innocenza" dopo la strage di Piazza Fontana, con la morte di Pinelli e l'accusa agli anarchici, scrive Anna Bravo che "è una verità parziale". La teoria dell'innocenza di chi reagisce violentemente all'ingiustizia della stage "di Stato", quella del “tutti colpevoli” per l'omicidio Calabresi, che può facilmente rovesciarsi in “nessun colpevole”, sono "costruzione in cui l’idealizzazione nostalgica e il desiderio di preservare un’autoimmagine positiva sono tenuti insieme da qualche vuoto di memoria."
Posizione analoga a quella di Luigi Manconi che della Stage di Piazza Fontana parla in termini di fattore di "accelerazione", di "precipitazione" verso l'uso della violenza: un "mito delle origini" quello dell'innocenza che nasconde in vero un'ovvietà: che negli anni Settanta sia mancato "Un pensiero originale sulla questione-violenza", scrive Manconi citando la Bravo.

Il discorso è sviluppato da Manconi nei capitoli successivi, come quello sul ruolo del mito resistenziale e successivo, nei quali al fine di marcare l'ipotesi del suo lavoro di una continuità tra primo e secondo terrorismo (cioè tra le varie fasi di evoluzione della Br tra il 1970 al 2007), giunge a denunciare precisamente il "punto dolente": l'interdizione all'uso delle violenza offensiva e rivoluzionaria non è solo mancato negli anni Settanta, ma "nemmeno successivamente è stato elaborato: lo si è dato per implicito e scontato (all'interno del PCI, ad esempio); è stato affrontato negli anni più recenti da Rifondazione comunista; e, per quanto riguarda i "nuovi movimenti", soltanto in alcuni (penso a Lilliput) la problematica risulta centrale e qualificante. In altre parole, si può dire che non esista nelle culture cui fanno riferimenti i movimenti sociali, che qui considero, un'adeguata interdizione culturale e morale nei confronti del ricorso all'illegalità e allo stesso esercizio della violenza. Non esiste, direi, una interdizione assoluta, un veto inappellabile, un vero e proprio tabù."
La legittimazione morale del ricorso alla "violenza giusta" è invece stata alimentata da "alcune importanti tradizioni politiche e culturali (da quella di ascendenza marxista a quella di ascendenza cattolica). Anna Bravo vi aggiunge una ascendenza antropologica "maschilista", cui il mondo femminista negli anni Settanta aveva cercato di porre qualche distinguo più che argine.

Certamente ci sono ancora dei limiti in queste due, come nelle altre analisi degli ex militanti, che lo stesso Manconi denuncia: costituiscono "un sistema complesso di "spiegazioni e "giustificazioni": e combinano variamente continuità e discontinuità, memoria di ieri e percezione di oggi". Ai quale si aggiungono i vuoti di memoria, di cui parla la Bravo.

Credo che, al di là del loro oggettivo valore, in queste due (auto) analisi manchi anche solo un accenno ad una ipotesi direi assolutamente legittima: se non fosse scoppiato il caso Sofri-Calabresi, con l'auto denuncia di Leonardo Marino nel 1987, avremmo avuto lo sviluppo di queste riflessione in seno a LC?
Inoltre, l'alto livello di coesione di gruppo di Lotta Continua, anche dopo la lettura di questi due testi, non toglie l'impressione di un'aura di omertà persistente che aleggia ancora intorno ai fatti di cui LC fu responsabile e che fatica ancora a distinguerne e denunciarne responsabilità individuali. Per dirla con Primo Levi, manca loro un certa autoconsapevolezza di essere esponenti di una "zona grigia" di sopravvissuti come “peggiori”.
E poi sempre assai sorprendente quando si parla di mancata cultura della non violenza, che due intellettuali, ancora riescano ad omettere la figura di Albert Camus da quel panorama di alternativa possibile in cui Anna Brava trova il posto per Rudi Dutschke, Jan Palach, Gandhi, Thoreau, Capitini, Hanna Arendt e Simone Weil. (Camus, dunque, questo sconosciuto al sessantotto, cui anche Goffredo Fofi e Paolo Flores D'arcais non sono riusciti evidentemente a trarre alcun beneficio in termini di riflessione sull'uso delle violenza politica. L'uomo in rivolta, gli articoli sulla stampa relativi alla terrorismo algerino, paiono ancora intellegibili agli ex giovani dei movimenti)

PARTE SECONDA

Il contributo dei due testi riserva però anche altri spunti positivi ed interessanti: quelli relativi alle vittime del terrorismo e delle violenza politica.

"Anche se non si può separare il terrorismo dal clima di quegli anni, mi pare che alla parola dei suoi esponenti, donne e uomini, vada dato uno spazio a sé; sapere di aver ucciso è una condizione fronteggiabile solo con un salto di coscienza che parta dal dolore per l’irreparabile che si è commesso. Ne ho trovate poche tracce nei loro scritti e interviste, dove la coscienza della responsabilità è soffocata dall’enfasi sulla dimensione soggettiva e sulla nuova persona che ormai si è, dall’insistenza sul contesto di allora e sugli errori di analisi politica, più che sui crimini che ne sono derivati. Le vittime stanno fuori o sullo sfondo…", scrive Anna Bravo.
Luigi Manconi va molto oltre.
Già in premessa scrive: "trattare del terrorismo senza considerare il punto di vista delle vittime è operazione non solo parziale ma, probabilmente, fallace." Il suo libro vuole infatti trattare il fenomeno terrorismo che "va analizzato non solo dalla parte dei suoi attori precedente, attuali e potenziali, ma - contemporaneamente - dalla parte del sistema politico e delle vita sociale e dalla parte delle vittime."
Nel definire la stagione del terrorismo rosso, "una ferita che - lungi dal rimarginarsi - ha rischiato piuttosto di incancrenirsi (..) per la scia lunga e dolente di sofferenze", l'Autore precisa che "Appartengono a quella scia, innanzitutto, la schiera delle vittime e dei familiari delle vittime; e vi appartengono anche, su un altro piano, le vite spezzate degli "ex combattenti"." Sottolineo la precisazione, "su un altro livello", visto che frange di ex terroristi tendono a considerare vittime solo loro stessi ancora oggi.
L'Autore precisa che utilizza il termine "combattenti", non perché in Italia ci sia stata una guerra o una rivoluzione, ma quella che definisce "una guerra civile simulata", per Manconi sinonimo di una lacerazione profonda del "patto sociale", che in quanto fatto non esclusivamente criminale, avrebbe richiesto da parte delle istituzioni dello Stato, pur senza fornire ai brigasti alcun riconoscimento politico sul piano giuridico, almeno una capacità di risposta che non si limitasse alla repressione giudiziaria. Una risposta dello Stato che fornisse loro un valore politico e sociale per agevolare una relazione con i terroristi in grado di essere più flessibile in occasione come quella del rapimento Moro, e soprattutto di affrontare l'uscita dagli anni di piombo con "una grande opera di "riconciliazione" che, nel nostro paese, invece non fu né realizzata né tentata.(…) A metà degli anni Ottanta (…) lo scampato pericolo e il conseguente sollievo determinano rimozione. Si crea un autentico buco nero, nel quale precipita un'intera fase storica, con i sui lutti e con le sue domande senza risposta." Il retaggio di quella fase è descritto dall'Autore, come "pesante, "resistente", in cui il dolore dei familiari delle vittime resta inchiodato dallo scarto tra l'aver subito un lutto "per ideologia" e la misura della pena inflitta al responsabile. Le vittime e i loro familiari sono quindi "immobilizzati in quel dolore, al quale non è stato dato alcun rilievo pubblico - alcuna funzione di testimonianza civile e di monito morale - se non nel momento delle esequie." Lasciandole nella "solitudine privata e la smemoratezza pubblica".
Il caso del libro di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, è considerato dall'Autore un caso raro di riconciliazione, "che opera positivamente per tutelare la memoria dei propri cari", al contrario dello Stato che non ha voluto "voltare pagina", ha preferito "il ritorno ad una normalità di superficie"."E' successo così che, periodicamente, una ferita non ancora rimarginata abbia ripreso a sanguinare" e ogni volta "le passioni sembrano avere la meglio sui tentativi di ricostruzione storica, si analisi sociologica, di mediazione e di ricomposizione politica". Una vera e propria reticenza "verso una discussione aperta", è la cifra che ha contraddistinto l'atteggiamento verso la questione del terrorismo: "tema critico e nervo scoperto di alcune tradizioni politiche e culturali, o di loro importanti componenti".
Conclude Manconi: "Insomma, la mancata riflessione ed elaborazione a proposito della "violenza rivoluzionaria" e della "violenza reazionaria" si sono alimentate, e continuano ad alimentarsi reciprocamente" privando il paese di una vera "pacificazione, che da una parte restituisca i "prigionieri"e dall'altra, "ancor prima", riconosca alle vittime il ruolo politico, morale, istituzionale e simbolico loro dovuto. Quello delle vittime, Manconi è assai chiaro, è stata una questione di "mancato spazio pubblico", cui solo nel 2004 è apparsa una prima controtendenza costituita dall'approvazione della legge n.206, precisa l'Autore. Le vittime "Nella memoria di quella "tragedia nazionale" sono - avrebbero dovuto essere, potrebbero ancora essere - anche altro (che semplice "parte lesa"): ovvero i soggetti che, in quanto più crudelmente feriti, più sarebbero in grado di contribuire a sanare quella stessa ferita".
L'Autore è consapevole che il tempo per "fare come il Sudafrica" sono scaduti, e pur con tutti i distinguo del caso italiano, giunge a proporre un "progetto verità", per perseguire una "riconciliazione" che giustamente precisa "non chiede di necessità - come esito inevitabile né, tanto meno, come condizione preliminare - la concessione del "perdono"."
Un progetto di commissione parlamentare di studio e di alto livello che raccolga le storie dei vari attori di quelle vicende, in seno al quale dare alle vittime un ruolo pubblico "altissimo e determinante".
In questo modo: "Le vittime e i familiari delle vittime, dunque, come protagonisti di quell'opera di ricostruzione storico-politica, di cui rappresenterebbero l'elemento cruciale e ineludibile, il "fattore umano" non cancellabile. Da ciò potrebbe discendere una intensa funzione pedagogica, un forte ruolo testimoniale, un denso significato di ammonimento: e la continuità non dimettibile di un messaggio della memoria".
Questa proposta per Manconi è fondamentale anche in prospettiva futura: il suo libro infatti traccia la continuità tra vecchie, nuove e nuovissime Brigate Rosse, giungendo a considerare anche possibili alleanze con il terrorismo jihadista.
Fare chiarezza sull'uso della violenza e chiudere i conti con l'uso che ne è stato fatto negli anni di piombo è quindi un prerequisito per la sua conclusione: non sarà possibile bandire completamente il terrorismo, ma "ridurlo a un ferrovecchio - che può fare assai male, come tutte le lame arrugginite - è possibile".

E' interessante aggiungere a proposito del ruolo testimoniale e pacificatore delle vittime, la nota di Anna Bravo sulla loro qualità narrativa. In una intervista dello stesso anno alla rivista Lo Staniero, sottolinea:
"Quello che mi indigna è il fascino che i reduci del terrorismo sembrano esercitare sui media. Su di loro si scrivono libri, si fanno film, si pubblicano loro interviste. E sono per lo più povere cose, parole di aspiranti caporali. Sulle vittime invece, quasi silenzio. Eppure sono molto più “interessanti” Guido Rossa, Bachelet, Casalegno che non i loro assassini – dico interessanti proprio nel senso di narrativamente ricchi, non nel senso di umanamente nobili. Credo che in nessun altro periodo si sia dato tanto spazio ai “cattivi” e così poco alle loro vittime."

Quasi un decennio separa l'oggi da questi due testi. Nel frattempo molte vittime, in particolare figli e figlie delle vittime, hanno scritto e testimoniato; la memoria pubblica delle vittime ha guadagnato spazi pubblici nelle targhe in ricordo dei caduti in molte città, e le associazioni delle vittime hanno da tempo iniziato la loro opera pedagogica nella scuola. Manconi stesso ricorda l'istituzione del Giorno delle Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi, nel 2008, che ogni anno il 9 maggio viene celebrato ad alto livello istituzionale. Tutto ancora con molti limiti, difficoltà e frizioni, retaggio di quanto descritto bene da Manconi. Da allora, però, il dato più importante che è emerso, come ho già avuto modo di sottolineare altrove, è quello che l'analisi dei terrorismi italiani sia diventato oggetto di ricerca delle nuove generazioni, prive di conoscenza diretta e soggettiva dei fatti. Questo distacco è la garanzia migliore per la memoria delle vittime e la qualità storiografica o sociologica degli studi in materia.