lunedì 8 settembre 2014

Luci ed ombre nel dibattito sul terrorismo italiano

Giovanni Mario Ceci. Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito. Carocci editore, 2014.


Premessa
Sono in autostrada diretto all'aereoporto di Malpensa per volare in Danimarca, alla radio, su RADIO3, sento la presentazione di un libro fresco di stampa con l'intervista al suo autore che dice più o meno: "non ci crederà ma uno dei filoni di ricerca più promettenti è quello delle memorie dei familiari delle vittime del terrorismo". Attivo la mia attenzione e mi registro il nome: Giovanni Mario Ceci e il titolo del suo libro che ricostruisce e presenta il trentennale dibattito accademico sul terrorismo italiano nell'ambito delle scienze storico-sociali. Ad Aahrus mi accolgono i professori Anna Cento Bull e Lorenzo Cecchini per due giorni di lavori presso la locale università e subito racconto loro della trasmissione chiedendo se avessero notizie di questo nuova pubblicazione. Anna mi risponde di aver ricevuto una email dall'autore che le scrive di aver dato ampio risalto al suo lavoro.
In effetti nelle pagine finali del penultimo capitolo sul dibattito recente a proposito dei "tentativi di elaborare categorie concettuali in grado di fornire un'interpretazione complessiva delle stagione terroristica" si possono leggere due nomi: "Autori di queste riflessioni sono soprattutto due dei più acuti interpreti degli ultimi anni della recente storia nazionale, Anna Cento Bull e Marc Lazar".
Purtroppo però l'Autore si è perso l'ultimo lavoro di Anna Cento Bull, "Ending Terrorism in Italy", uscito presumibilmente quando aveva già terminato la sua ricerca. Un vero peccato perché avrebbe potuto chiarire meglio alcuni prospettive sul futuro degli studi che nel capitolo sulle considerazioni finali restano appena delineate e in un paio di casi, omesse.

Andando per punti, faccio seguire le mie considerazioni da questa mia particolare postazione che da una parte mi ha portato a collaborare da 15 anni con l'Associazione italiana vittime del terrorismo (Aiviter) e da tra 3 a con la rete RAN della DG Home della Commissione Europea sui temi della radicalizzazione violenta, e dall'altra mi riconduce agli studi di storia con Franco Venturi, di anni assai più lontani.

Dibattito accademico e dibattito pubblico.
Ero interdetto dal sottotitolo. Mi domandavo, ma quale dibattito? In vero, il termine dibattito è inteso dall'Autore, ed in ambito accademico, come quello 'virtuale' tra libri scientifici: l'eredità e le critiche che ogni studioso porta rispetto a quelli che lo hanno preceduto. L'Autore stesso parla di un ricco "dibattito propriamente scientifico sul terrorismo italiano", ma osserva: "tuttavia, sino ad oggi, esso è stato quasi del tutto ignorato e mai riconosciuto".
Un filone di ricerca che aggiungerei è, allora, proprio quello di analizzare il rapporto tra dibattito accademico e quello pubblico a livello di quotidiani e media. In questi ultimi trenta anni l'attenzione dei media è sempre stata essenzialmente verso quelle pubblicazioni non scientifiche: dalla "memorialistica armata" degli ex terroristi alla saggistica dietrologica incentrata su teorie del complotto. Gli inserti letterari al massimo hanno recensito romanzi sugli anni di piombo. Anche quando hanno recensito saggi non mi risulta si siano mai sviluppati dibattiti e polemiche. Vige ancora un clima ipocrita per cui tutti meritano una recensione, ma il diritto di replica e polemica, in ambito appunto accademico, è questione dalla quale direttori di giornali e responsabili culturali si tengono alla larga.
In epoca di internet le cose sono cambiate, ma solo in apparenza: qualche polemiche può nascere on line in rete, ma l'eco non approda sui media tradizionali.
Il caso più recente riguarda Alessandro Orsini, ricercatore nella nuova generazione citato dall'Autore per la sua monografia sulle BR, e che ho invitato più volte ad iniziative di Aiviter e della RAN, il quale è stato violentemente attaccato utilizzando però una sua più recente pubblicazione su Gramsci e Turati. La polemica si è scatena on line, ma quando due recensione sono apparsa, una positiva su "la Repubblica" a firma di Roberto Saviano, l'altra negativa da parte dell'esponente delle vecchia generazione sessantottina, Angelo d'Orsi, su "La Stampa", nessuna replica è seguita, se non il silenzio.

Deficit storici e studiosi embedded.
Avendo scritto tre anni e mezzo fa un post intitolato, in modo un po' avventato, "L’accademia italiana di fronte agli anni di piombo",  la lettura del libro di Giovanni Mario Ceci mi ha fornito alcune (s)consolanti conferme. Infatti nonostante il profluvio di pubblicazioni sul fenomeno terroristico italiano, l'Autore rimarca il fatto che gli storici hanno avuto nel dibatto "un ruolo decisamente minore", come del resto anche a livello internazionale. Inoltre, molti lavori tanto storici che nelle scienze sociali, sopratutto quali realizzati 'a caldo', ma in generale quelli prodotti della generazione che vissuto i fatti di cui scrive, erano talvolta viziati da "pregiudizi legati alle culture politiche di appartenenza di ciascun studioso".
Ceci, in ambito di studi internazionali, utilizza il termine di studiosi 'embedded' quando sono sospetti di essere privi di una autonomia critica in quanto legati in maniera troppo stretta agli organi di governo (di difesa o intelligence). Per l'Italia, l'Autore è più cauto, ma si potrebbe ben parlare di studiosi embedded nella galassia delle sinistra, del PCI in moltissimi casi. Le ricerche sul terrorismo, per altro quasi tutte assai valide, del Centro studi Cattaneo furono finanziate dalla Regione Emilia Romagna. Gli studiosi dell'Università di Torino, da Tranfaglia a Bravo, erano parte del sistema PCI/CGIL e i loro lavori nascevano talvolta addirittura in seno alla "Sezioni Problemi dello Stato" del PCI prima ancora che all'Università.
Traspare abbastanza chiaramente che molte di quelle analisi, in particolare quelle 'monocausali', sono reperti oggi privi di ogni utilità interpretativa in quanto frutto avvelenato di teoremi politici a priori del fenomeno, anche se per alcuni di loro, specie la versione più complottistica della teoria del "doppio Stato", conta ancora oggi una discreta fortuna tra alcuni giovani ricercatori, epigoni della tradizione marxista.

Nel panorama degli studi italiani verrebbe quasi da tracciare una geopolitica: le ricerche italiane pare abbiano 4 punti di propagazione: Torino, Bologna, Padova e Roma. Ci sono delle peculiarità nelle ricerche sorte in ciascuno di tali centri? Lo accenno solo come ulteriore suggestione per ricerche future.

Le vittima, ovvero la storia al contrario e il ruolo rimosso.
Nell'introduzione e nelle conclusioni trovo quello che avevo ascoltato alla radio: a seguito dell'istituzione della giornata delle memoria dedicata alla vittime del terrorismo (nel 2007) "Negli ultimi anni, nel discorso pubblico si è dato in effetti sempre più spazio al punto di vista delle vittime, che rapidamente è divenuto significativamente un terreno d'elezione anche per l'editoria". E di studi su memoria, contromemoria e conflitti di memoria che prendono in oggetto sia le "politiche della memoria che il ruolo delle associazioni dei familiari delle vittime", sia "quell'insieme di libri, testimonianze, analisi della generazione i cui genitori sono stati vittime di azioni terroristiche".

Non era probabilmente compito di tale saggio sottolineare un aspetto storico che riguarda le vittime, ma siccome si configura come opposto rispetto a quello storiografico occorso alle vittime della Shoa, vale la pena introdurlo come ulteriore filone di ricerca.
Come sottolineai in un mio intervento a Bruxelles nel 2011: "Tzvetan Todorov ci ricorda che la base di ogni ricerca storica è la sistemazione curata e completa dei fatti, come il “Memoriale dei deportati ebrei” redatto in Francia da Serge Klarsfedl che documenta con estrema semplicità i nomi, i luoghi, le date di nascita. Questa attività risponde innanzitutto a una prima necessità: restituire dignità a tutte le vittime."
Il paradosso risiede nel fatto che fino al 2007 non c'è stato alcun elenco delle vittime del terrorismo; e a tutt'oggi manca un elenco esaustivo dei feriti e delle vittime italiane del terrorismo internazionale.
Se il libro di Donatella delle Porta, "Cifre crudeli", riporta i dati quantitativi fino al 1982, i nomi delle vittime individuali, i feriti e quelle dei casi di terrorismo internazionale non appaiono fino al 2001 quando tale attività ha iniziato a svolgerla Aiviter, sul suo sito internet.

Il secondo paradosso è relativo al valore pedagogico della testimonianza delle vittime. L'identità europea delle generazioni postbelliche si è formata sulle testimonianze dei sopravvissuti alla Shoa, che le hanno vaccinato - seppur non nella completa totalità -  dai virus fascisti, nazionalisti e razziali, mentre in Italia solo quest'anno si è giunti ad un protocollo tra Ministero dell'Istruzione ed associazioni delle vittime, per pianificare delle attività nelle scuole sul tema del terrorismo. In questi trent'anni solo l'iniziativa dei singoli e delle associazioni ha visto alterni e disomogenei interventi nelle scuole per portare testimonianza sui fatti e su un fenomeno assente dai programmi scolastici. Una testimonianza quella delle vittime, cui sfugge tuttora ai più, il valore di prevenzione dei processi di radicalizzazione che può svolgere se articolata con metodo e programmi bene definiti.

Questa paradossi sono figli di un fattore che si comprendono dalla lettura del saggio "Ending Terrorism in Italy", di Anna Cento Bull e Philip Cooke (Routledge, 2013) - qui recensito - nel quale viene ben delineata "la "strategia dell’amnesia" portata avanti dallo Stato Italiano". Il concetto che Ceci accenna nel suo saggio solo come "il rischio di un possibile 'oblio', se non addirittura di una vera e propria rimozione collettiva del ricordi degli "anni di piombo.", riferendosi a De Luna e Grevi, nel saggio inglese di Cento Bull viene analizzato come frutto di una strategia che dalle leggi premiali su pentiti e dissociati è proseguita in quel processo di conciliazione con i terroristi svolto nell'ombra, con l'ausilio delle Chiesa e delle organizzazioni cattoliche, lasciando le vittime prive di ruoli nell'exit strategy condotta dallo Stato. Una strategia che spiega bene le "ferite aperte", di cui peraltro Ceci è ben consapevole, la povertà del lavoro storiografico sulle vittime e la mancata attribuzione di un ruolo sociale e pedagogico a queste ultime.

Le due omissioni e un vulnus.
Quello che nel saggio di Cento Bull e Cook è segnalata come una delle piste di ricerca più interessante, cioè quella sul ruolo della Chiesa e delle associazioni cattoliche nella fase di uscita dal terrorismo, è una delle omissioni del capitolo finale.
L'altra è quella relativa al terrorismo internazionale in Italia durante gli anni di piombo. A fronte di qualche ricerca su fatti specifici, come l'attacco palestinese all'Achille Lauro, anche in quel settore è tutto da costruire. A partire da quello basico sopraricordato: i nomi e i fatti.

Infine un vulnus: la ricerca spagnola. Dal punto di vista della valorizzazione delle vittime come fonti storiche e attori sociali dotati di una autonomia politica e di una valore civile di contrasto al terrorismo, il vulnus del saggio è rappresentato dalla assenza del panorama della ricerca storico-sociale spagnola sul terrorismo.
Gli studi spagnoli sull'ETA e le sue vittime e quelli comparativi Italia/Spagna/Irlanda del Nord, come quello di Rogelio Alonso, o della ricercatrice italiana in Spagna Agata Serranò (1), (ma anche  lo stesso "Ending Terrorism in Italy") avrebbero probabilmente permesso all'Autore di ampliare ulteriormente le prospettive del capito conclusivo, soprattutto in relazione alle vittime.

Studiosi vittime
E' vero che l'indice dei nomi, anche al netto di quelli non italiani, è pur sempre molto ampio, ma non posso non notare che 4 autori scientifici (cioè al netto della memorialistica, come nei casi Rossa, Calabresi e Tobagi, etc.) sono vittime del terrorismo: Angelo Ventura, Guido Petter, Giovanni Moro e Carol Beebe Tarantelli.

Angelo Ventura è giustamente posto in grande risalto. Egli è il primo nome che si incontra della rassegna di Ceci, ma anche alla sua fine, nel bilancio, quando riconosce chi ha maggiormente contribuito a connotare la complessità del fenomeno terroristico: "come hanno dimostrato con chiarezza nei loro lavori Ventura, della Porta, Drake e Weinberg, i principali protagonisti del dibattito".
Mi permetto di aggiungere una notazione metodologica che avevo colto subito nei testi di Angelo Ventura quando la raccolta dei suoi contributi 'a caldo' fu edita da Donizzetti nel 2010 con il titolo: "Per una storia del terrorismo italiano", utilizzando le parole di Sergio Luzzato nella sua recensione sul Domenicale del Sole24Ore, :
"….i saggi di Angelo Ventura colpiscono per la capacità del professore universitario di farsi – a ridosso degli eventi, anzi dentro, quando il terrorismo rosso ancora non apparteneva al passato – una sorta di "storico del presente". Ci sono, negli studi pubblicati da Ventura trent'anni fa e raccolti ora da Donzelli, sollecitazioni di metodo e abbozzi di analisi di cui si potrà fare tesoro nel momento in cui si vorrà ricostruire compiutamente la storia del terrorismo italiano. A cominciare dall'idea che tale storia richieda (parole del 1984) «una lettura globale», dove le imprese del terrorismo rosso vengano studiate contestualmente alle imprese del terrorismo nero, alle trame eversive dei poteri occulti, ai rapporti con la criminalità organizzata, ai collegamenti internazionali sia dei terroristi sia dei servizi segreti.
C'è poi l'aureo principio per cui la storia del partito armato, in quanto storia "normale" di un movimento politico, va ricostruita anzitutto studiando, "banalmente", gli individui che lo hanno promosso, le idee che essi hanno elaborato, i gruppi che li hanno sostenuti sul campo.
Angelo Ventura studia i rivoluzionari italiani del Sessantotto e dintorni alla maniera in cui un maestro degli studi novecenteschi di storia, Franco Venturi, era andato studiando i rivoluzionari del Sette o dell'Ottocento, i giacobini francesi, i populisti russi: cioè a prescindere da ogni sociologismo, guardando agli uomini in carne e ossa, ai loro materiali di lavoro e di lotta, alle loro azioni o realizzazioni concrete. Insomma praticando una storia (diceva Venturi, in polemica con tante bardature di metodo o di pseudo-metodo) «senza additivi»: nomi, luoghi, date..."

Mi sembra opportuno qui segnalare un testo poco noto del professore padovano: quello del suo intervento in occasione del primo convegno promosso Aiviter a Torino nel 1996, "Lotta al terrorismo. Le ragioni e i diritti delle vittime". Raccolta di atti che abbiamo recentemente reso di libero accesso in rete, pubblicandone la versione digitale.
Quell'intervento è stato oggetto di riflessioni dell'Aiviter ancora recentemente utilizzate sul caso Sofri.

Guido Petter, anch'egli vittima di una violenta aggressione a Padova, ha il merito di aver gettato negli studi psicologici una prima analisi, in analogia con Gabriele Calvi, sulle caratteristiche di quella "costellazione" che oggi viene chiamata processo di radicalizzazione e che non pare avere avuto aggiornamenti in anni recenti nel nostro paese.

Sul valore del pamphlet di Giovanni Moro sugli anni Settanta non ho nulla da aggiungere al giusto rilievo che Ceci gli attribuisce. Non conosco invece il lavoro scientifico di Carol B. Tarantelli.

Conclusione
Anticipo le scuse a Giovanni Mario Ceci per il modo poco ortodosso di recensire un lavoro che merita sicuramente grande attenzione e più accurate modalità. Mi auguro che questo saggio sia di vero stimolo ed apertura a future proficue ricerche, come del resto è nelle intenzioni esplicite del suo Autore.


(1) Serranò A., Le armi razionali contro il terrorismo contemporaneo: la sfida delle democrazie di fronte alla violenza terroristica, Giuffrè Editore, 2009