giovedì 3 febbraio 2011

Premessa ad una ricerca sul terrorismo internazionale e le sue vittime


Nei paesi democratici, la possibilità di accedere al passato senza sottoporsi a un controllo centralizzato è una delle libertà più inalienabili, accanto alla libertà di pensare e di esprimersi. Essa è particolarmente utile per quanto concerne le pagine nere nel passato di questi paesi”.*


Il punto è che, come per ogni libertà o diritto, lo statuto della memoria nelle società democratiche non è definitivamente assicurato, altrimenti non si spiegherebbe perché la memoria delle vittime del terrorismo degli anni di piombo, sia stata assai parziale fino all’inizio dello scorso decennio, cioè a distanza di decenni dai fatti.

In Italia è capitato che il primo passo del lavoro storico, cioè la sistemazione dei fatti, abbia avuto avvio quando Aiviter nel 2001 ha iniziato a redarre delle schede di memoria di tutti le singole vittime. Quando cioè attraverso il sito internet dell’associazione, il suo presidente, Maurizio Puddu, mi chiese di procedere, attingendo all’archivio, ad un lavoro analogo a quel “Memoriale dei deportati ebrei” redatto in Francia da Serge Klarsfedl. Documentare con semplicità i nomi, i luoghi, le date di nascita, i fatti e, quando possibile, un minimo di biografia. Si trattava innanzitutto di restituire dignità a tutte le vittime. Citando ancora Todorov, possiamo dire che quel lavoro rilanciava il concetto che “la vita ha perso contro la morte, ma la memoria vince nella sua lotta contro il nulla”.

La memoria si è quindi imposta a fatica e tardivamente: solo nello scorso decenni quando al lavoro on-line di Aiviter sono seguiti i lavori di Fasanella e di Arditi e poi, via via, altri e soprattutto i libri scritti dai figli delle vittime. Fino al passo decisivo della legge che ha introdotto il “Giorno della memoria” delle vittime del terrorismo e delle stragi, celebrato la prima volta al Quirinale il 9 maggio del 2007.

L’anno successivo, nella stessa occasione, è stato pubblicato dalla Presidenza della Repubblica “Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana” un volume che ha di fatto finito di completare la sistemazione dei fatti da noi iniziata sette anni prima, almeno per tutte le vittime del terrorismo interno: rosse, nero e stragista.

Certamente resta ancoro un lavoro oneroso da completare verso i feriti: i gambizzati. Quella pratica che il figlio del Vicedirettore de La Stampa ucciso dalla BR, Carlo Casalegno, definisce “peggio della tortura”, perché dura tutta la vita.

Ma ce ne è un altro da compiere, un mosaico da comporre, e che si è fatto urgente dopo che questo secolo si è aperto ponendo al centro lo stesso fenomeno ad un livello planetario: quello delle vittime del terrorismo internazionale.

Anche in questo caso fatti e nomi rischiano di scivolare nel dimenticatoio, anche perché la dimensione internazionale non è iniziata dopo l’11 settembre 2001, C’è già un segmento di terrorismo internazionale che, viaggiando parallelo agli anni di piombo, è rimasto sottotraccia, sovrastato del clamore e la gravità di quello interno. Si tratta del terrorismo palestinese e quello ‘di stato’ libico. Ma non solo. Se ci spostiamo dal territorio italiano abbiamo vittime italiane o di origine italiana in molte aree. Il Sud-america per esempio.

Possiamo fare degli esempi di questi fatti e delle loro vittime, tra quelli fini ad oggi individuati, o meglio ritrovati, ma quello che è urgente a sostegno di questa ricerca, è l’aiuto ad individuare i fatti da parte di tutti coloro che ne conservano memoria.

Debbo, infine, precisare un aspetto metodologico, per evitare equivoci. Affrontare la storia partendo dalle vittime, dando loro voce attraverso i loro famigliari o i superstiti, non significa che debbano loro dare un senso alla storia, cioè, come diceva Primo Levi: non spetta alle ex vittime cercare di capire i loro assassini. E’ però la testimonianza, con il suo discorso su fatti e persone, che fornisce un arricchimento allo storico, che costruisce l’ausilio indispensabile alla sistemazione degli eventi occorsi, che fa riemergere la dignità dovuta delle vittime.
Riportare queste vittime dal passato al nostro presente, significa riaprire ferite dolorose, ma è solo da queste che può avviarsi una guarigione, cioè avere la possibilità per noi tutti di capire meglio quanto è accaduto, affinché, se non prevenire che riaccada, almeno che sia acclarato quello che è successo.


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*Tzvetan Todorov scrive queste parole pensando al colonialismo francese in Algeria, ma le pagine “nere” della storia italiana, relativa agli anni di piombo, non è che non siano state studiate, ma hanno sofferto della diagnosi descritta da Ferraioli: “Nella storia dell'Italia unita non si era mai verificata una situazione simile, mai la magistratura e la classe politica si erano trasformate in modo così sistematico in storici, al punto da indurre in alcuni l'ipotesi che il loro lavoro di indagine, raccolta e ricostruzione dei fatti, fosse così ampio, organico e correlato da sostituire tutte le altre fonti. Dal carattere tipico di fonte integrativa questa attività della magistratura e della classe politica per l'imponenza probatoria, per la qualità dell'oggetto trattato, per la sistematicità e il lungo arco cronologico affrontato ha assunto i connotati di fonte sostitutiva di tutte le altre, imponendosi come fonte unica per la storia del potere politico nell'Italia repubblicana, per lo meno a partire dagli anni Sessanta".


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